Regia di Tom Hooper vedi scheda film
Ci si può commuovere per un film che parla di un tizio che balbetta? E poi, a chi importa con tutto quel ben di dio in 3 D che esce ora di fermarsi due ore a seguire la storia di qualcuno che ha difetti di linguaggio?
Invece si, ci si può commuovere e può importare un po’ a tutti visto che è una storia vera che parla della Storia, con la S maiuscola. Quella del regno di Inghilterra del 1925, della salita al trono di Edoardo VIII dopo la morte di Giorgio V e repentina ridiscesa dallo stesso semplicemente come David, troppo innamorato dell’americana pluridivorziata Wallis Simpson, e della definitiva salita al trono del secondogenito Giorgio VI, Bertie per la famiglia, proprio alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Un saliscendi sconveniente per una famiglia di regnanti. Soprattutto per la gara a non fare il re dei due rampolli accodati per linea di sangue, l’uno troppo attratto dalle gonnelle, l’altro affetto da una terribile balbuzie castrante, un impedimento dannatamente ostinato nel manifestarsi, nonostante il rango di appartenenza, che ne comprometteva l’immagine di uomo e futuro monarca.
La storia vera del futuro re d’Inghilterra e del suo logopedista Lionel inizia in una Londra fantasma sospesa in un tempo ipotetico, ancora ammantata delle nebbie vittoriane dei costumi rigidi e i cerimoniali legnosi. La maestà riconosciuta si pronunciava tale anche all’interno della famiglia, i cui doveri istituzionali soverchiavano prepotentemente i ruoli famigliari in rituali ormai anacronistici. Il mondo moderno irrompe a scompaginare la vita dei regnanti, l’amicizia tra il re e il suo dottore si offre come paradigma dell’avvicinarsi della nobiltà agli occhi dell’uomo della strada . L’incapacità di Bertie di assolvere alle vicende istituzionali, ovvero impettirsi di fronte alle folle e fare discorsi durante le ricorrenze, disegna un uomo, prima che un re, profondamente provato da un’infanzia dolorosa e inaffettiva. La modernità della cura del logopedista benché non accreditato tra i medici ufficiali, sarà proprio quella di indagare nella psiche dell’uomo rimuovendone i blocchi psicologici. Tom Hooper disegna quindi una storia che partendo dalle vicende dei due protagonisti descrive un mondo suo malgrado costretto a squassare la placida quiete nel quale riposa per affrontare la guerra e la modernità che preme alle porte dell’impero, ma nel contempo riavvicinando la figura del re all’intimità della propria persona così come la monarchia dovrà uscire dalle magnificenti stanze dei palazzi per rendersi visibile e comprensibile ad un popolo bisognoso di guida. Il discorso del re è costruito tutto sui duetti tra Bertie e Lionel, un incontro/ scontro dialettico a tratti sublime in cui l’abbandono dell’ortodossia deontologica del medico deve necessariamente scalzare la corazza semidivina del suo illustre paziente per rendersi efficace. La messa in scena è profondamente elegante, molto classica, adagiata sulla solennità regale della vita di corte, ossequiosa degli ambienti pomposamente lussuosi. Salvo poi deformare il tutto con l’uso di una ripresa grandangolare molto accentuata quando Bertie viene colto dalle sue crisi di balbuzie. Un’intuizione efficace che stravolge il lineamenti del re in una maschera di paura e trasforma gli immobili baluardi della regalità in antri oppressivi e soverchianti, metafora di tutto il sistema che regola la vita esclusiva dei nobili. E’ un film molto interessante Il discorso del re, che cela sotto la semplice vicenda di un uomo tutta la complessità della vita di un intero popolo e che fa della comunicazione il perno sul quale ruota tutta la vicenda. Come la comunicazione avvicina Bertie a Lionel, la stessa necessità di comunicare direttamente con i sudditi avvicina ancora di più la popolazione all’amata monarchia. La comunicazione di massa, emblema del mondo moderno mostra qui i suoi prodromi in cui la voce del re deve essere sempre il faro guida di discendenza divina, visto che il re d’Inghilterra è anche il capo della chiesa, e che l’impedimento di Bertie/Giorgio VI rischia di fare collassare.
Una valanga di nomination all’Oscar, 12, sulle quali pesano fortemente le performance degli attori, Colin Firth già vincitore del Golden Globe, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter mentre per il resto Il discorso del re se la dovrà vedere con il superfavorito The social network di David Fincher.
Nota polemica: un film strutturato tutto sulla comunicazione e sulla sua assenza, è assurdo che venga proiettato doppiato. Benché di alto livello, il doppiaggio in questo caso snatura e travisa tutto il lavoro che Colin Firth compie per rendere effettivo il suo impedimento, la balbuzie. Così come l’accento di Geoffrey Rush che nel film interpreta un dottore di origine australiana, pone come contrasto dialettico la purezza della lingua inglese del re, benché offesa dall’handicap della balbuzie, verso la corrotta lingua di un paese coloniale ponendo di fatto l’accento sulla sudditanza culturale che l’Impero Britannico imponeva sui suoi possedimenti nel mondo. Tutte queste sfumature si perdono inesorabilmente. A chi, parlando di Colin Firth e Geoffrey Rush ruotando estaticamente gli occhi all’indietro e scodinzolando all’aria con le mani declama “straordinarie” riferendosi alle loro prove, sarebbe interessante chiedere cosa abbiano giudicato. Le facciotte? La postura ? L’incedere impalato del re? Perché, forse dimenticano, la voce era di un’altra persona.
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