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The Fighter

Regia di David O. Russell vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Fighter

di Spaggy
8 stelle

Corpo – testa – corpo. È la tattica vincente messa a segno dai fratelli Dicky Eklund e Micky Ward (senza la "e", come pretendono i protagonisti per rimarcare le loro origini irlandesi) nei loro incontri di boxe. Ma è anche la tattica con cui si muovono i pezzi della scacchiera del regista David O. Russell che confeziona una pellicola che può tranquillamente definirsi di redenzione e riscatto, dove la boxe è solo una via d’accesso alle relazioni complicate all’interno di una anomala famiglia del Massachusetts, nella città di Lowell, patria dei colletti blu, dove il sogno di riuscita personale passava attraverso le palestre in cui si praticava pugilato.
 
Sganciare sinistri nei confronti della pesantezza del lavoro e agguantare soldi e fama: un sogno di provincia che sul finire degli Anni Settanta (il 18 luglio 1978) si era quasi realizzato per Dicky, riuscito a incontrarsi sul ring con il campione Sugar Ray Leonard. Un incontro vinto forse per puro caso ma che aveva regalato al ventitreenne boxeur la gloria e l’orgoglio della cittadina di Lowell: si era trasformato nel simbolo di colui che era riuscito a fare il grande salto, colui che diveniva modello di ispirazione e al contempo di attrazione per la popolazione locale. Una carriera lanciata nel firmamento della boxe ma subito rovinata dalla deriva psicologica del giovane, pressato da una madre agente che ne cura gli interessi economici e dal vortice del crack in cui scivola. Dieci anni di carriera, 19 vittorie e 10 sconfitte e poi il definitivo ritiro che coincide con l’inizio del periodo di allenamento del fratellastro minore, Micky. Anni dopo la rete televisiva americana HBO decide di realizzare un documentario sulla vita di Dicky: "High on Crack Street, Lost Lives in Lowell" (Sulle vie del crack: vite perdute a Lowell), un’occasione per l’uomo di ritornare sulle scene, convinto che la realizzazione del film lo aiuterà a procurarsi un nuovo incontro.
 
Micky sente addosso la responsabilità del peso del nome del fratello, è costretto a confrontarsi con la sua gloria e il suo carattere estroverso. I suoi allenamenti sono altalenanti e quasi subiti, nessun potere decisionale e soprattutto nessuno spiraglio, a causa del sempre più invasivo ruolo della madre che nel tentativo di racimolare soldi per tirare avanti la sua numerosa famiglia (9 figli) accetta anche incontri al limite dell’improbabile, come quello contro Mike Mungin, pugile dal peso superiore di quello di Micky (74 chilogrammi contro i 66 di Ward) che inevitabilmente si traduce in un massacro fisico e psicologico. Oltre al ko sportivo, complice la conoscenza della giovane barista Charlene, di cui Micky si innamora, il pugile decide di allontanarsi progressivamente dalla famiglia e, soprattutto, dalla madre e dal fratello.
 
Nel tentativo di procurarsi il denaro per l’acquisto della droga, Dicky finisce in una rissa con dei poliziotti a cui si aggiunge anche il fratello Micky. I due vengono arrestati ma mentre il fratello minore viene rilasciato a Dicky toccherà una condanna più severa: si tratta del suo ventisettesimo arresto. Da questo momento Micky decide di riprendere in mano la sua vita, scegliendo un nuovo allenatore e un nuovo manager. Dai primi locali incontri vinti il giovane arriverà a scontrarsi con una promessa mondiale della boxe, il messicano Sanchez. L’incontro sulla carta appare impari e per prepararsi Ward deciderà di chiedere aiuto al fratello in prigione, fratello che ha da poco assistito alla proiezione del film realizzato dalla HBO e che è rimasto colpito dalla visione che i suoi concittadini hanno su di lui.
 
Micky Ward vincerà l’incontro e per lui si aprirà la via al titolo mondiale dei pesi welter: dovrà sfidare a Londra Shea Neary. Come proseguire i suoi allenamenti? Affidarsi alle mani di O’Keefe che ha creduto nuovamente in lui o seguire ancora una volta i consigli di Dicky, uscito nel frattempo di prigione? Continuare ad accontentare Charlene o mostrare dei segni di avvicinamento verso la madre? È necessario accontentarsi solo di una metà affettiva? Cosa comporterebbe invece perdere una delle metà di allenamento sportivo? Solo rispondendo a questi quesiti e trovandovi soluzione Micky riuscirà a salire sul tetto del mondo la sera dell’11 marzo del 2000.
 
Ancora una volta si parte da una storia vera. Colpisce poi che la produzione statunitense di quest’anno abbia prodotto film memorabili a partire da piccole storie di riscatto ambientate nella provincia mai mostrata: “127 Ore” di Boyle ispirato alla vicenda del giovane Ralston ambientata nello Utah, “Un gelido inverno” storia verosimile di riscatto anche sociale ambientata nel Missouri e ora “The Fighter” che quasi unisce le tematiche dei due film ambientato nel Massachusetts. Ancora una volta un universo chiuso che genera solitudine nel protagonista o, meglio, nel non protagonista in questo caso. È difficile stabilire chi sia al centro della vicenda raccontata: Dicky o Micky? La sceneggiatura segue le parabole di entrambi a partire da un punto morto della loro vita, dalla constatazione di una realtà fino a quel momento statica: Dicky vive di ricordi, Micky quasi di soprusi imposti dalla madre. Il primo vive nell’illusione di ciò che avrebbe potuto essere e di ciò che la cittadina pensa di lui, il secondo si aggrappa invece alla possibilità del ciò che sarà. Il riscatto per entrambi arriverà nello stesso momento e sorreggendosi a vicenda. In fondo tutto ciò che chiedono alla vita è una seconda possibilità, è diverso il mezzo con cui la ricercano invece. Quasi effimera e superficiale la gloria di Dicky: idolo di una cittadina, vincitore di un incontro più simbolico che tecnico, dove la fortuna ha giocato un grande ruolo, incapace di gestire l’improvvisa fama e scivolato del tunnel della droga. Più profonda e sofferta la gloria di Micky: voluta e ricercata per dimostrare qualcosa a qualcun altro (alla madre, alla fidanzata, al fratello o alla comunità) e vissuta sulla propria pelle tra dolorose rinunce e profonde analisi psicologiche che lo comportano a un compromesso anche con se stesso. Due fratelli apparentemente diversi eppure uguali, la cui affermazione sportiva di Micky coincide con la crescita emotiva di entrambi, con la disintossicazione da droghe e ombre esterne, siano esse il crack, la madre o il ricordo. Due fratelli che diventano un tutt’uno nell’ultimo pugno sganciato a Neary, colpo frutto di strategie e tattiche ma soprattutto scaturito dal rapporto intenso di fiducia che si crea tra i due.
 
Troppo attaccati al cordone ombelicale di mamma Alice entrambi. Colpisce, ferisce e picchia duro Alice. Capelli platinati, sigaretta in mano e bicchiere di whisky in bocca. Carattere duro e spigoloso, è lei il vero cardine della famiglia, è lei che gestisce l’economia di casa e tiene le redini di tutto ciò che la circonda, è il boss della situazione. Non c’è niente che non dipenda dalla sua volontà e come un boss si muove anche nel campo degli affari dei figli. La sua maggiore preoccupazione non sono i figli in se e le loro carriere, da brava manager punta dritta al denaro: i figli e i loro incontri sono soltanto la via per tentare la scalata sociale, per elevarsi di rango e uscire dalla miseria. Non importa se per raggiungere lo scopo deve sacrificare qualcosa, non importa se coadiuvata dalle figlie deve organizzare ronde punitive nei confronti di Charlene, l’unica donna in grado di competere con lei, non importa se deve riempire di schiaffi il marito, reo di aver preso decisioni senza il suo parere. Se Charlene ruba il cuore di Micky, il predominio di Alice sarà minacciato e il rischio è di rendere indipendente il giovane ragazzo, svanirebbe ogni occasione di controllo e ogni potere decisionale. È un personaggio complesso quello di Alice, da condannare e biasimare fino allo slancio di tenerezza che sul finale ribalta il personaggio, quando aprirà gli occhi sulle differenze sui figli, quando si renderà conto che Micky non è né Dicky né il mezzo per rivalutare Dicky stesso: non può valorizzare un figlio a discapito di un altro, deve convivere con l’idea che il denaro non è tutto di fronte all’amore e con la certezza di dovere spezzare quel cordone troppo spesso, di dover cedere Micky a Charlene, la “ragazza Mtv” capace di indirizzarlo su nuovi angoli, nuovi punti di vista.
 
Chi si aspetta un film sportivo rimane deluso. La boxe è quasi un pretesto, le immagini degli incontri durano pochi minuti. Anche il decisivo match londinese è risolto in maniera breve, non conta come si combatte sul ring, conta di più come si combatte nella testa e come si riesce a portare lì sopra il bagaglio vissuto: rabbia e coraggio, riscatto e affermazione, per entrambi i fratelli. L’orgoglio di Lowell che passa dalle mani di Dicky a quelle di Micky, il sogno di piccola provincia che si realizza con le proprie sudate forze, le aspettative che si concretizzano. Contano di più gli allenamenti e i dialoghi, il backstage fisico che si trasforma in backstage formativo, la riacquistata forma muscolare che diviene simbolo della riacquistata fiducia in se stessi e nell’altro, i legami che si solidificano e rafforzano tra fratelli e la riappacificazione tra le dicotomie affettive (madre/fidanzata, madre/padre, fidanzata/fratello, fratello/nuovo allenatore). Dopotutto il “fighter” non è solo il combattente ma è anche lo sfidante, colui che necessita di sfidare anche se stesso e il suo mondo prima di combattere l’avversario.
 
E l’ossessione dell’immagine che si destruttura: la televisione, in primis, che crea e divora i suoi stessi figli, li mastica e li risputa per poi cucinarli in una salsa diversa. Il documentario HBO su Dicky assume una duplice connotazione: distrugge il pugile drogato e crea l’uomo. Lo stesso Dicky esaltato dall’idea del film nel momento in cui assiste alle immagine durante una sorta di proiezione collettiva in carcere si vergogna di se stesso, passando dall’atteggiamento sbruffone a quello più sofferto di chi è costretto a rivedersi dall’esterno, con occhi altrui. Un ribaltamento dei ruoli: non più illusione reale ma certezza, occhi aperti e ferocemente stuprati dalla crudeltà delle parole, la televisione che si trasforma da creatrice di miti a killer di personaggi. Dicky è stato per molto tempo un personaggio, è arrivato il momento di divenire persona. E come in un gioco delle parti sarà sempre la televisione a segnare questo passaggio di consegne: il film si apre e si chiude con un’intervista sul divano che apre il documentario che la HBO stessa sta girando ora sul fratello Micky e sulla sua realizzazione.
 
Il lungometraggio vive dell’interpretazione dei suoi attori: Christian Bale nei panni di Dicky subisce la sua ennesima ed eccessiva trasformazione fisica a causa della droga e del malessere interiore che ne divorano quasi le carni, la sua eccessiva magrezza confonde e spiazza, crea alchimia con lo spettatore che quasi vive il tormento interiore; Mark Wahlberg stupisce invece per l’intensa prova cerebrale del suo Micky, difficile non immedesimarsi nel suo sguardo troppe volte perso, come colui che non sa che direzione prendere; d’impatto la prova eccessiva e quasi sopra le righe di Melissa Leo nei panni di una madre che tutto è tranne che mamma, villana e volgare, pacchiana e double face, eccessiva in tutto, dall’abbigliamento al modo di camminare, dalla rabbia al pianto. Forse sopravvalutata invece Amy Adams in un ruolo fondamentale ma che nulla aggiunge o toglie ad una recitazione di maniera. Interessante poi l’uso delle sorelle dei due pugili che fungono quasi da coro da tragedia greca.

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