Regia di Gianluca Maria Tavarelli vedi scheda film
“Le cose che restano” è uno di quei film (parlare di fiction sarebbe riduttivo oltre che offensivo, considerato l’infimo livello medio della produzione televisiva nostrana) cui si perdonano volentieri i difetti. Personalmente infatti penso che la seconda e terza parte siano troppo concentrate su episodi collaterali che, pur interessanti presi singolarmente, nel complesso disperdono dal vero cuore della storia. Mi riferisco alla vicenda che coinvolge Alina, giovane clandestina costretta dapprima a prostituirsi e poi a vivere nascosta come testimone essenziale in una grossa operazione di polizia e Cataldo l’agente incaricato della sua protezione e che di lei inevitabilmente si innamora. Penso al personaggio del comandante Vittorio Blasi, reduce dell’Afghanistan, colpito alla testa da una scheggia e privato della memoria, aiutato da Nora a ricostruire il suo passato. O ancora alla stessa relazione sentimentale che coinvolge Nino e Francesca, bellissima e giovane moglie del suo professore universitario, dai risvolti quasi da soap (ma la sequenza a tre dell’addio è struggente, oltre che girata benissimo). C’è poi forse un eccessivo buonismo (molto di sinistra, peraltro) ma per nulla fastidioso (sono di parte, lo ammetto) nella rappresentazione di alcuni personaggi e situazioni. Piccoli limiti, quasi impercettibili, che non inficiano in ogni caso il risultato complessivo. “Le cose che restano” (il titolo deriva da una poesia di Emily Dickinson) è uno dei lavori più appassionanti, brucianti ed intensi che siano stati prodotti negli ultimi anni dalla tv di stato e avrebbe davvero meritato una distribuzione cinematografica (e, diciamolo, anche la programmazione televisiva diluita in tre settimane a cavallo del Natale non è stato proprio un bel servizio, ed infatti gli ascolti sono stati appena discreti). Gianluca Maria Tavarelli il cui “Un amore” rimane per me un esempio illuminante di cinema sentimentale di qualità e non ruffiano né patinato, conferma ancora una volta di essere regista sensibile ed attento. Basterebbe vedere la dignità e la discrezione con cui vengono gestite le due sequenze luttuose (soprattutto quella più difficile della morte di Lorenzo, il più piccolo dei fratelli della famiglia Giordani, con ravvicinatissimi primi piani sui volti dei familiari ad esprimere tutto il loro straziante dolore) per capire come il lavoro di Tavarelli sia di uno spessore non facilmente rintracciabile in analoghe opere cinematografiche. Il regista asciuga la densa e ricca materia narrativa (perdita di un figlio, sbarchi di clandestini, integrazione, elaborazione del lutto, separazioni, amori gay, malattia, reduci di guerra, aborto, gestione della famiglia), la alleggerisce con momenti leggeri (i siparietti tra Nino e Valentina, amica di una vita da sempre innamorata senza successo del ragazzo – dolcissima la sequenza del bacio rubato “per scommessa” davanti al portore di casa, splendido il finale al mare - il personaggio di Corrado Fortuna che se la spassa con la proprietaria dell’appartamento in cui è in affitto con Nino), affronta con pudore e straordinaria umanità, senza complessi o sciocchi stereotipi argomenti spesso considerati scomodi ma che sempre più fanno parte della vita di tutti i giorni, confeziona un sincero e delicato affresco familiare di struggente coinvolgimento e di vibrante vitalità, regala alcune sequenze splendide per la naturalezza con cui sanno cogliere la quotidiana semplicità e la malinconica bellezza della vita (la prima cena a casa Giordani con la famiglia riunita per festeggiare il ritorno di Andrea, il pianto solitario di papà Pietro in ufficio, il saluto di Pietro alla casa rimasta vuota prima di partire per l’estero, il suo rientro a casa, la trasferta di Andrea in Montenegro, un viaggio serale in autobus “da capolinea a capolinea” ascoltando i racconti dell’innamorato), trova una chiusa convincente, realistica e non necessariamente felice per tutti i suoi personaggi. Non vorresti mai staccarti dalle vicende che coinvolgono la famiglia Giordani, te ne senti parte, le vivi sulla tua pelle anche perché raramente capita di incontrare sullo schermo personaggi così autentici, sinceri e familiari. Già, perché un altro punto di forza di questa magnifica opera scritta da Sandro Petraglia e Stefano Rulli (all’altezza di “La meglio gioventù” e terza parte di un'ideale trilogia iniziata con "La vita che verrà" di Pasquale Pozzessere) sono i caratteri, tutti pennellati con dolcezza, pudore ed intelligenza, senza eccessi, caricature, abbellimenti. Dallo scontroso, inquieto, contraddittorio e sensibile Nino, vero protagonista del racconto, al paterno ed affettuoso Andrea (quanta finezza e semplicità nella descrizione della sua storia d’amore con Michel), dalla scrupolosa e paziente Shaba alla fragile ed indifesa Alina, dalla disperata mamma Anita (quanta commozione nel suo illusorio e pacificato vivere in un’altra dimensione per l’incapacità di accettare il lutto più grande) allo sfuggente e smarrito papà Pietro. Ciliegina sulla torta le superbe e non scontate prove degli attori (altro grande merito di Tavarelli). Ennio Fantastichini e Daniela Giordano sono esemplari nei ruoli dei genitori, Claudio Santamaria è una piacevolissima conferma e riesce a dare al suo Andrea delicate e calde sfumature, Thierry Neuvic stupisce (per chi lo ha visto in “Hereafter”) per come rende profondo e sofferto Michel (tra l’altro in un toccante dialogo con Andrea c’è quasi un involontario richiamo al film di Eastwood su quello che c’è dopo la vita), Farida Rahouadi e Leila Bekhti straziano il cuore. Concordo con Fittante invece riguardo alla Cortellesi, ancora un po’ acerba in ruoli drammatici, ma tutto sommato accettabile. Vera rivelazione però, almeno per me, è Lorenzo Balducci. Ammetto la mia ignoranza sul suo conto, ma in questo film è davvero prodigioso, bravissimo nel trasmettere con un semplice sguardo tutta la rabbia, l’insicurezza, la fragilità ma anche l’orgoglio, l’impetuosità, la spontaneità e la determinazione di un ragazzo che ha un pessimo rapporto con il padre cui non perdona di avere tradito la madre (“Da solo in quella casa con te non ci resto: mi fai schifo!” gli dice brutale), si trova coinvolto quasi senza accorgersi in una relazione pericolosa (“un terremoto” la definisce lui) che sconquassa il suo equilibrio tanto da renderlo consapevole di quanto sia simile a suo padre, preferisce, dopo la laurea in architettura, con umiltà lavorare come manovale in un cantiere, salvo poi avere la grande occasione per dimostrare le sue qualità di disegnatore (sviluppo favolistico, soprattutto di questi tempi, ma del resto non si può vivere di solo pessimismo). Commette tanti errori, rischia di persona, è confuso ma alla fine cresce e matura. E’ lui il filo conduttore della storia, a lui viene giustamente regalato il finale romantico ma per nulla stucchevole o prevedibile. Perché se è vero che “certe volte quando si soffre si ha bisogno di una tana sicura, di un po’ di silenzio” e che “è molto più difficile amare i propri figli quando sei bloccato per causa loro” è altrettanto vero che “bisogna imparare a vivere in situazioni eccezionali come se fossero normali.” Il dolore straziante che spesso la vita porta con sé lascia ferite e cicatrici non facilmente rimarginabili ma ciò che conta sono le cose che restano, quelle per cui vale sempre la pena di resistere, lottare, soffrire, amare.
Voto: 8
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