Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Capita sovente che la traduzione dei titoli di film stranieri faccia perdere il senso o dia una cattiva idea della pellicola ideata dal regista: gli esempi sono tanti, ma fortunatamente il film di Susanne Bier non è tra questi.
Vincitore agli oscar come film straniero, gareggiando con altrettanti validi film, esso è un'ennesima testimonianza di come la Danimarca sia una nazione ormai importante nel panorama cinematografico.
La vendetta (Hævnen) è il sentimento che domina per tutto l'avanzare della pellicola. L'unico è Anton, che sembra essere veramente l'unico a professare la non violenza; detentore di una morale che ci è impossibile non condividere. Eppure, tutte le sue dimostrazioni, per quanto corrette esse siano, sono destinate a fallire: l'istinto della rivalsa e dell'aggressività, di origine puramente animalesca, sono più forti di qualsiasi etica. Anton lo scoprirà a sue spese, sconfitto da questo elementare e agghiacciante principio.
Lo scetticismo non è relegato esclusivamente al continente africano, ma anche in quel mondo migliore, che malgrado la ricchezza, nasconde del marcio al suo interno: la violenza nasce in qualsiasi luogo e condizione sociale; la civiltà e il progresso sociale che ostenta l'Europa, altri non sono che bei vestiti da indossare. Il male è dentro casa, ed è ben più terribile e imprevedibile di quanto non sia quello tipico e consueto dei paesi del terzo mondo.
Un attimo di distrazione basta a disfare l'equilibrio precario su cui si fonda la società del XXI secolo, trasformando dei ragazzini in vandali dinamitardi, mettendo a rischio la loro e l'altrui vita: un errore di paternalismo, anche se in buona fede (visto come una menzogna e un tradimento); una bugia provocata dal dolore che porta sull'orlo del suicidio un giovane; la Bier non risparmia neppure il suo personaggio più positivo, un uomo in fuga dai doveri di padre, incapace di occuparsi del figlio disagiato e vittima di bullismo a scuola, troppo lontano per impedire ciò che stava per accadere sulle sponde del mar Baltico.
La Bier dimostra di essere una delle più importanti registe della Danimarca: il suo movimento di macchina è deciso e minimalista; non si sofferma mai su specifici sociologismi, ma confida nella potenza delle immagini e delle parole; i frenetici cambi d'inquadratura e le zoomate improvvise durante i momenti cruciali, sono tutti lasciti del dogma 95, ed in questo lungometraggio danno quel contenuto raggelante e intenso che ben si confà a questo genere di drammi.
Il montaggio di Pernille Bech Christensen e Morten Egholm è ben calibrato: alterna benissimo l'Africa dei medici da campo con la Danimarca opulenta dei borghesi; significativo e soprattutto eccezionale per il modo con cui riesce a dare al film un ritmo crescente di tensione. Potente e palpabile.
A completare questo successo di aspetti tecnici vi sono fotografia e sceneggiature: le prime colpiscono per la loro perfetta realizzazione, a livelli, che sembra di osservare continuamente dei quadri più che delle riprese; con dei colori caratteristici per ogni singolo luogo. Non solo colori freddi e caldi che differenziano i paesi in cui ci troviamo (Danimarca e Africa), ma persino strabilianti tramonti e una skyline della cittadina danese: il punto più alto raggiunto dalla fotografia e dalle scenografie. Bellissimo per gli occhi e con un senso di vertigini non indifferente.
Le sceneggiature, invece, riescono a restituirci ogni più piccolo tentennamento e sfumatura di ogni personaggio: esse penetrano nelle loro psicologie grazie al lavoro di Jensen. Lo sceneggiatore riesce a scrivere linee di dialogo che si adattano per ogni personalità, con differenze vistose nel sillabario, a cui si aggiungono delle sottili critiche che fanno riflettere: la più importante, è sicuramente l'onnipresenza di internet tra i discorsi dei due ragazzi. Esso viene usato, sia come mezzo di comunicazione, ma anche come risorsa dove si può imparare facilmente a costruire una bomba. Troppo vasto e troppo pericoloso per lasciare i propri figli a navigare con questo colosso di informazioni, persino dannose.
Il primo problema però sorge proprio nelle sceneggiature: si sente la mano della Bier che vuole dimostrare forzatamente la sua tesi, tralasciando quella magnifica oggettività, quasi scientifica, dello stato di cose tra Africa e Europa. È evidente, per chi conosca la regista, che ella voglia dirci "si va ad aiutare popoli lontani, forse anche perché non ci si sente all'altezza di affrontare i più sfuggenti problemi che si hanno dentro casa. E questo è il prezzo", proprio come aveva già fatto nel suo precedente lavoro "Dopo il Matrimonio". Condivisibile, ma permeato da una visione astutamente semplificativa.
Un peccato, che un film partito con una simile potenza di riprese e tematiche, si rovini in un finale che cade nel melodrammatico: tra pianti e frasi buoniste si perde quell'atmosfera da favola nera che era costantemente presente; un brusco cambiamento di stile che risulta insopportabile e urticante. La Bier non vuole cadere nel cinismo, e questo è comprensibile, ma il cambiamento è così marcato che è impossibile tralasciarlo.
Per di più i personaggi rimangono interrotti, senza che abbiano una degna conclusione, tipo Anton: resta incompiuto e ritorna a vivere come nulla fosse in quel continente africano, con le stesse medesime azioni di inizio film.
Il cinema della Bier colpisce forte, affidandosi ad attori bravissimi e ad una tecnica straordinaria. Attuale e trascinante, non riesce però a stendere lo spettatore, causa il drastico cambio di rotta nel finale e quella lucidità necessaria a rimanere più oggettiva.
Merita un plauso anche solo per l'inquietante e allusiva immagine di un formicaio nei titoli di coda ( che ricorda "Il Mucchio Selvaggio"), un rimando a quella violenza inscenata da Peckinpah, che ancora oggi continua ad esistere sotto uno smoking di ipocrisia.
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