Regia di Susanne Bier vedi scheda film
E' un film denso di contenuti, ma anche pieno di aperture e chiusure (stilistiche, scenografiche e narrative) che bene ha meritato i tanti riconoscimenti che gli sono stati tributati. La messa in scena è impegnata costantemente a creare tensione, a provocare una specie di ansia progressiva che avvolge tutto e dalla quale non possibile prescindere.
I confini nel mondo permangono e siamo lontani da una possibile e reale risoluzione. In un mondo migliore non ci dovrebbero più essere confini culturali e gli individui dovrebbero essere in grado di convivere pacificamente. (Micaela Veronesi)
Dopo la parentesi hollywoodiana (non proprio felicissima) di Noi due sconosciuti, Susanne Bier è tornata a girare in Danimarca, e di nuovo ha centrato magnificamente il bersaglio con questo premiatissimo In un mondo migliore, drammatica vicenda familiare dai risvolti filosofici che per certi versi sembra quasi voler diventare il controcanto de Il nastro bianco di Haneke, anche se il punto di vista della regista è certamente meno cinico, disilluso ed estremista, e soprattutto più caldo e melodrammatico, persino risolutivo in fondo nella sua conclusione che non è assolutamente accomodante pur nella scelta azzardata ma consapevole di un possibile (almeno in parte) happy end.
La “discrepanza” è evidente rispetto a tutto il resto, ma assolutamente “necessaria” nel disegno complessivo (e persino “nell’economia”) della storia. Quello che da più parti è stato indicato dalla critica come un difetto, il cosiddetto “lieto fine” a cui accennavo sopra, risulta invece a mio avviso, addirittura uno dei punti di forza del lavoro della Bier, anche perché, se proprio di lieto fine si dovrà parlare, questo riguarda solo uno dei tanti livelli su cui si appoggia e si snoda il racconto (perchè In un mondo migliore può essere davvero visto e letto come tanti film in uno) che riguarda esclusivamente la figura di Elias. Risolvendo positivamente la sua parte, la Bier afferma però qualcosa di molto diverso rispetto al consueto e di prammatica “e vissero felici e contenti” dell’happy end. Mostra semmai l’utopia di una possibile soluzione positiva per un segmento degli avvenimenti: il ragazzino che si salva e i genitori che si ritrovano, ma la ricostruzione sulle macerie non è mai indolore, lo sappiamo bene e il percorso per una riconciliazione sarà davvero lungo e faticoso.
Lo scarto imposto all’andamento, consente invece alla regista di regalare al film un respiro più disteso che permette agli spettatori di concentrarsi meglio e di più, uscendo dalla sala, su quegli aspetti di carattere più universale e quindi di più ampio respiro e implicazione, che sono stati messi in campo e che hanno caratterizzato il racconto nelle varie fasi della pellicola..
In un mondo davvero migliore – sembra dunque voler dire la Bier - la scelta non violenta riuscirebbe a disinnescare la spirale della prepotenza. Non è però nel nostro mondo che “migliore” non lo è proprio (e siamo stati anche noi ad aver contribuito a farlo diventare così infame) che può verificarsi questo miracolo, perché qui nel reale ormai chi porge l’altra guancia sembra ai più uno stupido imbecille debole e sfigato, specialmente se chi osserva ha gli occhi ancora ingenui ma fortemente manipolabili (influenzabili) dell’adolescenza.
Andando ancora più indietro, sembra semmai che la regista voglia anche affermare che esiste una radice di sopraffazione davvero inestirpabile in un’umanità in cui da sempre il forte, come del resto accade con le belve in natura, soggioga e magia inesorabilmente il debole. Ma non solo, però: lo tortura anche per semplice gioco, per il gusto di vederlo soffrire, magari per scommessa o per esorcizzare la noia e l’apatia. E il solo modo per fare giustizia o preservarsi – proprio come accade in natura fra gli animali - è quello di alzare la voce con ancor più prepotenza e digrignando i denti per fare emergere così il proprio potenziale offensivo, unica arma possibile per tentare di tenere a bada la prepotenza altrui.
Il film racconta la storia di due dodicenni, Elias appunto, figlio di una coppia di medici che stanno per separarsi (lei lavora in ospedale, lui fa il volontario in un campo profughi africano ed opera così a contatto con il sangue e la disperazione quotidiana di quei popoli vessati e martoriati da secolare violenza), e Christian, di famiglia più agiata, ma rimasto da poco solo col padre dopo la morte della madre uccisa da un cancro devastante. I due ragazzini sono entrambi a loro modo “diversi”: Elias perché timido, insicuro e incapace di opporsi ai bulli che lo perseguitano all’uscita della scuola solo perché porta l’apparecchio correttivo ai denti; l’altro in apparenza più spavaldo e grintoso, ma fragile e vulnerabile nel profondo (oltretutto considerato dai compagni uno straniero perché trasferitosi da poco dalla vicina Svezia passando dall’Inghilterra), perchè arrabbiato con il mondo intero per il lutto “ingiusto” che ha subito e che non è in grado di elaborare, né di condividere. Tra i due ragazzi nasce inevitabilmente un’alleanza in cui giocano elementi di frustrazione e rivalsa, amplificati anche dal fatto che per entrambi, i padri appaiono ai loro occhi impotenti e vigliacchi, persone sulle quali non è possibile fare alcun affidamento.
Come si buon ben vedere, sono molteplici i temi che si intrecciano, a partire da quelli che portano in primo piano e riguardano le figure di quei genitori poco stimati dai figli: il padre di Elias medico volontario in Africa spesso assente che è un idealista, e che per questo è costretto a scontrarsi con enormi dilemmi morali sia in patria che nel terzo mondo che gli creano forti conflitti e lacerazioni profonde, e l’altro padre che ha problemi di assoluta incomunicabilità con il figlio e non riesce nemmeno a esprimere le proprie emozioni e i sentimenti nonostante la buona volontà che non è da sola mai sufficiente in queste situazioni a risolvere un problema di totale incomprensione. Ci sarebbe anche la madre di Elias, Marianne, un personaggio che rimane però più sullo sfondo, e anche giustamente, perché la storia, nonostante che a raccontarcela sia una donna, e che traspaia perfettamente tutta la sua visione “al femminile” delle cose, si concentra prioritariamente su figure e dinamiche squisitamente maschili.
Il film della Bier sollecita molti interrogativi, alcuni anche inquietanti e di bruciante attualità (come spiegare ai giovani nel caos generalizzato della contemporaneità – tanto per fare alcuni esempi - che in una società evoluta non si risponde alla violenza con altra violenza come accadeva invece nelle civiltà tribali? E soprattutto, come trasmettere l’idea che la forza di un individuo si misura dalla sua rispettabilità, non certo in base alla sua aggressività anche semplicemente “difensiva” che dimostra?). Disegna però soprattutto un mondo in cui le prossimità e le distanze non sono semplicemente e solo “problemi geografici” (temi spesso ricorrenti nel suo cinema) ma bensì determinazioni culturali ben radicate e profonde: il boia africano che ci descrive a un certo punto il film, non è più rozzo e mentalmente sottosviluppato del meccanico danese che ha aggredito senza un motivo il papà di Elias e non accetta scuse né ragioni, teorema ben evidente e sviluppato che scardina molte certezze acquisite.
La regista, scegliendo alla fine proprio una via di pacificazione e di conciliazione, ci stimola semmai a riflettere di più su molti nodi importanti della nostra epoca, e i “confini” (non necessariamente geografici) ne fanno parte a buon diritto. Se questi non coincidono più con le frontiere doganali, ma sono determinati invece dalla cultura (o dalla sua “carenza”), come fare a crescere e progredire verso quel “mondo migliore” auspicato, superando stereotipi, insicurezze e pregiudizi? Il confine è dunque nel film una metafora ricorrente e centrale che attraversa tutta l’opera, un concetto che lascia una strana sensazione di inquietudine che ci riporta spesso a ripensare persino alle nostre resistenze personali, perché sappiamo bene anche noi che ci sono “confini” evidenti fra le persone, nel film come nella vita reale, che rendono divise e diffidenti le posizioni e quasi impossibili i rapporti: Christian che non comunica con suo padre e lo accusa di essere responsabile della morte della mamma; i genitori di Elias che si sono separati, ma si alternano nella loro stessa casa per state con i figli e creano così nuove barriere; Elias che non riesce ad interagire con i compagni di classe ed è spesso vittima della prepotenza.
Confini dell’anima dunque che si mischiano con quelli spaziali ugualmente presenti ed insistiti (il trasferimento “da un paese straniero” di Christian dopo la morte della madre; gli arrivi e le partenze di Anton, i continui scambi abitativi) che portano in primo piano quelli più prettamente culturali (la violenza sulle donne e sui più deboli che non è una peculiarità solo africana, ma una realtà in espansione che si propaga in tutto il modo espressa in vario modo, bullismo, prevaricazione e razzismo compresi.
Il discorso, se si analizzassero davvero tutti i singoli tasselli e le connessioni che ne derivano, diventerebbe però davvero molto lungo e articolato, richiederebbe pagine e pagine di analisi strutturale, che finirebbero per far assomigliare il tutto a un trattato sociologico più che a un’esercitazione “osservativa” di carattere cinematografico. Mi fermo allora qui senza prevaricare: importante è aver magari sollecitato la voglia di leggere le cose anche in questa prospettiva.
In un mondo migliore si conferma dunque come un film denso di contenuti, ma anche pieno di aperture e chiusure (stilistiche, scenografiche e narrative) che bene ha meritato i tanti riconoscimenti che gli sono stati tributati.
A livello di scrittura (la sceneggiatura è di Andres Tomas Jensen) il lavoro risulta particolarmente intenso e scrupoloso, talmente meticoloso, da non lasciare davvero nulla al caso anche quando sfiora figure marginali che hanno importanza secondaria nella storia, e questo aiuta molto anche a creare lo stile, la costruzione cinematografica delle immagini. La regia della Bier si nutre infatti di impennate improvvise anche vorticose, che si alternano a dilatazioni e rallentamenti programmati (motivati non tanto dalla differente durata delle inquadrature, quanto dall’uso speciale che viene fatto della macchina da presa utilizzata spesso a mano - come nella corrente del Dogma alla quale anche la Bier aderì a suo tempo - ma in modo molto spontaneo e naturale, il mezzo ideale insomma per realizzare inquadrature dinamiche e in movimento con reiterati primi piani ravvicinati che si concentrano sui volti dei protagonisti, alternati a un altrettanto frequente ricorso a zoommate e carrellate che sembrano voler pedinare i personaggi senza dare loro alcuna tregua).
La messa in scena è impegnata costantemente a creare tensione, a provocare una specie di ansia progressiva che avvolge tutto e dalla quale non è assolutamente possibile prescindere o dissociarsi; la fotografia risulta al contrario molto pulita, quasi levigata, con parecchia luce naturale e i colori vivaci di una tavolozza piuttosto variegata in cui prevalgono le tonalità del giallo del verde e del blu, come a voler far risaltare il contrasto fra l’ambiente esterno e i chiaroscuri esistenziali che caratterizzano i personaggi (Micaela Veronesi).
Ottimi come al solito tutti gli interpreti: Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Marcus Rygaard, William Johnk Nielsen, Martin Buch, Kim Bodnia, e altrettanto intenso il contributo musicale della colonna sonora.
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