Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Prometto che non utilizzerò, per parlare del cinema di Susanne Bier, la frase più scontata dell'universo. Anzi no, la citerò una sola volta in apertura, quasi in funzione di esorcismo: "C'è del marcio in Danimarca". Ecco, dovevo farlo, è stata una liberazione. Ma d'ora in avanti quella frase sarà tabù. E dopo questo inizio da cialtroni, vado a ricompormi, perchè la nostra amata Bier fa un genere di cinema la cui analisi richiede serietà e lucidità. Cominciamo con l'ammettere che la mia personale conoscenza del cinema dei paesi nordici è limitata. O meglio, di film danesi e svedesi ne ho visti più d'uno, ma devo rilevare una mia personale resistenza a trattenerne il ricordo. Di quei film, in altre parole, non mi resta molto, ma vorrei fosse chiaro che la colpa è solo mia, che verso tutto ciò che riguarda la produzione culturale e artistica di quelle zone nutro uno sorta di diffidenza che mi è difficile spiegare. Forse (e chiedo scusa per la banalità d'approccio alla questione) uno dei problemi sta nella mia totale avversione alla loro lingua, e in particolare alla clamorosa impronunciabilità dei loro nomi e cognomi, qualcosa per me di insormontabile. Provate, per dire, a buttare un occhio al cast di questo film: una scarica di nomi uno più assurdo dell'altro. Ma voglio partire proprio da quest'ultima banalità per esprimere una percezione. Ecco (e nuovamente mi scuso per questo mio sguardo un pò naif ma sincero) io ho maturato una forte sensazione che quei popoli (lungi da me qualsiasi retropensiero razzista, per carità!) abbiano una cultura, un temperamento, forse anche un approccio con la vita, l'arte e la società, profondamente diversi rispetto a noi europei di origine latina-mediterranea. A noi loro sembrano soprattutto molto freddi, trattenuti, misurati. E qui entra in gioco il talento di Susanne Bier. La (bella) signora Bier ha saputo far convivere con efficacia e brillantezza due "strade" artistiche: da una parte ha saputo rendere i sentimenti di quella fredda gente del nord assolutamente UNIVERSALI, trasformandoli in qualcosa che potesse emozionare platee di cinefili di tutto il mondo e, al contempo, lo ha fatto senza "svendersi", nel senso che il suo è cinema della sua terra, con tutte le peculiarità della Danimarca, e che di quel paese ci restituisce tutto lo spirito. Non mi pare cosa da poco. Anzi, se proprio devo dirla tutta, e so di essere impopolare, trovo il suo cinema molto più appetibile di quello del suo conterraneo Lars von Trier, e francamente come regista la preferisco al suo più celebre collega. Ma non è finita. Tutti sanno che la signora Bier, dopo aver dato lustro alla cinematografia danese, è stata convocata ad Hollywood per un progetto tutto americano ("Noi due sconosciuti"). L'operazione a mio avviso è riuscita perfettamente, nel senso che la bella signora ha realizzato un ottimo film con capitali americani e due superstar come Benicio Del Toro e Halle Berry ma -attenzione!- non si fatta cannibalizzare dal Dio Dollaro e, da cineasta intelligente quale essa è, ha subito rifatto le valige ed è tornata a casa ricominciando a lavorare ad una nuova produzione tutta danese (quella di cui stiamo parlando) che oltretutto è probabilmente il suo miglior lavoro. Il suo è cinema che evoca spesso forte tensione morale, e lo fa parlando di umanità, di sentimenti, di dolori e gioie degli uomini, riuscendo a cogliere da storie semplici spunti complessi, difficili, importanti. Come in questo eccellente apologo morale sulla violenza. La Bier affronta a mani nude un tema tremendo e affascinante. Come può reagire un uomo di fronte alla violenza? La ripudia per principio morale? Ne è in qualche modo sedotto? Essa è inevitabile? E' una risposta necessaria? E -ancora- bambini e adulti possono averne percezioni differenti? E -infine- un adulto è in grado di spiegare con convinzione ed efficacia ad un bambino perchè ripudiare la violenza? Sono temi che fanno tremare le vene ai polsi, vero? Beh, la Bier li affronta con lo spirito di chi va a toccare proprio i nervi più scoperti. L'effetto per lo spettatore è spesso di profondo disagio nell'assistere a situazioni che lo mantengono costantemente in allarme. L'inquietudine che devasta le menti dei due bambini protagonisti diventa un tutt'uno con quella degli spettatori, che vengono messi di fronte a dubbi e malesseri davanti ai quali non è possibile chiudere gli occhi. La vicenda ci porta a fare la conoscenza di due ragazzini entrambi problematici (per differenti motivi) i quali finiscono fatalmente per unire le "diversità" che li caratterizzano, stringendo un'amicizia un pò perversa che al sottoscritto ha evocato quella di uno dei miei film di culto, "Creature del cielo" di Peter Jackson (ricordate le due amichette "diaboliche" di cui una era l'allora adolescente Kate Winslet?). Quei due ragazzini sono in realtà il prodotto di due famiglie, e in particolare di due padri che, seppure quasi esemplari, non hanno saputo interpretare e capire la profonda insoddisfazione dei rispettivi figli. La storia è appassionante (in sala non volava una mosca!) e non è il caso di raccontarla nel dettaglio; limitiamoci a dire che il narrare della Bier è fluido e, nonostante l'asprezza di fondo, per nulla ostico. Anzi, c'è dentro anche un pizzico di mélo che può conquistare un pubblico più vasto. La Bier è riuscita a coniugare il (melo)dramma famigliare (rapporto genitori-figli, un matrimonio che sta andando in pezzi, l'impossibile elaborazione di un lutto) con un gigantesco punto interrogativo riguardo al destino di un Occidente all'interno di un mondo sprofondato nel caos e rassegnato alla violenza. In sostanza ha fatto quello che ogni artista dovrebbe fare: intercettare un malessere reale, introiettarlo, indagarlo...ciò che qualcuno chiama TENSIONE MORALE. Per la cronaca: il film è in corsa per l'Oscar e ha vinto al festival di Roma sia il premio del pubblico che quello della giuria. Per una volta, mi chiamo fuori dalla consuetudine di soffermarmi sul cast: a leggere quei nomi fatti solo di consonanti mi sento già male. Farò tuttavia un piccolo sforzo, perchè Ulrich Thomsen e Mikael Persbrandt sono davvero due attori superbi, nonchè colonne del cinema danese. Se riuscirete ancora a beccare questo film, ritenetevi fortunati, perchè il bombardamento delle uscite natalizie lo ha praticamente cancellato. PS: ho volutamente taciuto su quello che da più parti è stato segnalato come l'unico punto debole del film, un finale giudicato da molti eccessivamente buonista. E' un'opinione, che, se anche teoricamente condivisibile, non inficia affatto un ottimo film.
Voto: 10
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