Regia di Susanne Bier vedi scheda film
In un mondo migliore potresti anche restare intrappolato, come ragno nella tela, o volare come gli aquiloni dei bambini sul mare. Tuttavia, si dovrà togliere quel velo. Anteposto tra le persone e la morte, se si vuole un mondo migliore.
In continuità con la poeticità della sua scrittura, la straordinaria regista danese, Susanne Bier, non si smentisce mai come scrittrice prima (insieme ad Anders Thomas Jensen) e regista, autrice di un cinema assolutamente singolare e con una sua poetica. D’autore.
Torna, come in Dopo il matrimonio (2006) un’altra figura di medico, questa volta è il dottor Anton, medico in un campo profughi in Sudan, che torna a casa nella monotona tranquillità di una cittadina della provincia danese. Qui si incrociano le vite di due famiglie e sboccia una straordinaria e rischiosa amicizia tra i giovani Elias e Christian. La solitudine, la fragilità e il dolore, però, sono in agguato e presto quella stessa amicizia si trasformerà in una pericolosa complicità e in un inseguimento mozzafiato in cui sarà in gioco la vita stessa dei due adolescenti.
Anche nell’ultimo suo bellissimo film, The Things We Lost in the Fire, banalizzato nel pessimo titolo italiano, Noi due sconosciuti (2007), ma anche questo Hævnen, dalla traduzione “Vendetta”, è diventato il mucciniano In un mondo migliore, Susanne Bier aveva indagato nei continui meccanismi del dramma. Ora lo esaspera, portandolo fino al limite della sopportabilità. Concentra, rendendola essenziale, quasi pura, la recitazione. Fomenta il dolore, raccontandolo mediante i dettagli, le nervose zoomate e un montaggio che alterna vita e morte. Non c’è esclusione del male, anzi, questo è sotto la lente di ingrandimento, si sovraccarica di tutta la drammaticità che gli appartiene. Perciò si tratta di una vera e propria parabola sulla violenza. Quella che abita le terre del Darfur e che riesce a far scontare alle donne e ai bambini, soprattutto, i soprusi del mondo ricco, ma anche quella che può esistere in una terra tranquilla come la Danimarca. Il trade union di questi due mondi è il medico Anton, che personifica la domanda essenziale: se val la pena rispondere alla violenza con la violenza? E’ lui che cerca, evidentemente, con i fatti, un’altra via. Ed oggi, anche al cinema, raccontare che può esistere un mondo migliore, non dovrebbe essere cosa da poco, da buonisti. C’è l’urgenza di crederlo e volerlo.
Così la Bier (ri)scrive un’ottima pagina di buon cinema, dilatando tempi e temi, dipingendo immagini, fatte di musica e fotografia, scavando nelle vite umane. Quel che resta ancora di buono.
Giancarlo Visitilli
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