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In un mondo migliore

Regia di Susanne Bier vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su In un mondo migliore

di laulilla
6 stelle

È un film in cui molti temi si affiancano. Stando al titolo italiano il tema centrale si direbbe essere la prospettiva di un mondo – forse utopico – solidale e non violento, che richiede una profonda rigenerazione morale dell’umanità.

 

Il titolo originale, Hævnen, che nella nostra lingua si traduce con Vendetta, invece, sembra aderire meglio al racconto e anche porre più di un interrogativo sulla reale possibilità che gli uomini diventino buoni.

Che la vendetta e l’odio siano forieri di mali certi, è più volte detto nel film, soprattutto dai due personaggi adulti, Anton (Mikael Persbrandt) e Claus (Ulrich Thomsen).

Anton è un medico danese, impegnato in un villaggio africano, dove, in un ospedale nel deserto, presta la sua opera, cercando di alleviare le sofferenze dei malati e dei feriti che gli si presentano spesso dopo aver subito sulla loro pelle le conseguenze dell’odio di Bigman, feroce e ottuso guerriero, che si diverte a sventrare le donne incinte.

In Danimarca Anton ha una moglie, che lo vuole lasciare, e un figlio, Elias (Markus Rygaard), fragile adolescente, vittima silenziosa della violenza dei suoi compagni di scuola, che si prendono gioco della sua solitudine, umiliandolo.

 

Claus è un professionista londinese, che – insieme a  Christian (William Jøhnk Nielsen), il figlio adolescente, dopo la morte della giovane moglie stroncata da un tumore, si trasferisce in Danimarca presso l’accogliente villa di una parente che si offre di prendersi cura del piccolo orfano –

Elias avrebbe fatto amicizia con Christian, che nutre un sordo odio contro il padre – a cui addossa la colpa di aver lasciato morire la madre - nonché contro le ingiustizie.

Proprio da Christian Elias avrebbe imparato a difendersi dall’aggressione dei compagni con un coltello e a nasconderlo…

 

Al tema della violenza e della vendetta sembra perciò affiancarsi quello della solitudine dei giovani che maturano una loro concezione dei rapporti fra gli uomini, antitetica a quella civile e pacifica dei padri, impotenti a capire le tragedie quotidiane dei loro figli, e ad arginare l’inesorabile crescita del male nei loro cuori.

La parte più convincente del film è questa, secondo me, poiché sia la descrizione del comportamento di Elias e Christian, sempre più lontani dal modello morale dei padri, sia la loro accettazione di una logica omertosa e feroce, che diventerà pericolosa per loro stessi, sono rappresentate con durezza impassibile, senza retorica e senza cedimenti buonistici.

 

E’, invece, meno convincente il racconto del ravvedimento finale, che forse è gradito al pubblico, che in tal modo può autoassolversi e/o consolarsi, ma che, dopo la perfetta indagine sul radicarsi del male nei due ragazzi, mostra un che di artificioso.

La non violenza non ha, nel film, un grande appeal, forse neppure per Anton che, pur la sostiene apertamente: non si oppone al linciaggio di Bigman, all’ospedale per farsi curare una ferita purulenta e dolorosa.

Il nodo non risolto del film è, dunque, il problema del rapporto fra giustizia e vendetta: porgere l’altra guancia forse non è  il modo efficace per affrontare la violenza altrui.

 

Il tema del male e della difficoltà a vincerlo, assillo di molti registi di formazione luterana, è il vero centro del film: si trova ovunque, nessun uomo ne è immune, in Europa come nel resto del mondo, e insidia la nostra vita continuamente. La regista ha messo in campo molti temi importanti, come si vede, ciò che ne fa un film di riflessione etica rilevante, non necessariamente un grande film:

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