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El aura

Regia di Fabián Bielinsky vedi scheda film

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La recensione su El aura

di Peppe Comune
8 stelle

Esteban Espinosa (Ricardo Darin)è un tassidermista schivo e taciturno, soffre di attacchi di epilessia ed è in possesso di una memoria fotografica. Il massimo dell’evasione sembrano essere i momenti in ci si cimenta nel “gioco” di raccontare i modi in cui progetterebbe la rapina perfetta, quella che ne rapitori ne poliziotti sarebbero capaci di concepire perché “troppo idioti”. Il suo amico e collega Sontag (Alejandro Awada) lo convince ad accompagnarlo ad una battuta di caccia nel sud dell’Argentina dove trovano alloggio nei “capanni” di Carlos Dietrich (Manuel Rodal), un vecchio cacciatore famoso perché accompagna gli occasionali avventori fino alle zone più nascoste della foresta della Patagonia. Ma lui non c’è al momento del loro arrivo e a gestire i capanni ci sono Diana (Dolores Fonzi), la giovanissima moglie di lui, e Julio (Nahuel Pèrez Biscayart), il fratello minore di lei. Durante il girovagare nella zona di caccia, Esteban scopre per caso che Carlos Dietrich sta preparando una rapina al furgone portavalori di un casinò e facendo affidamento sulla sua memoria prodigiosa decide di intromettersi nel piano e di giocarvi un ruolo decisivo.

 

 

“El aura” dell’argentino Fabiàn Bielinsky (morto prematuramente all’età di quarantasei anni lasciandoci solo due fil all’attivo,questo e “Nove regine”, del 2000) è un film di raffinata bellezza, con una regia accorta e puntuale ed un ritmo calibrato alla perfezione. Un noir ostinatamente argentino direi, per la centralità attribuita agli spazi vergini della Patagonia e per quel coniugare gli imprescrutabili percorsi della mente umana con la precisione del calcolo matematico a cui ogni cosa partecipe dell’universo può essere ricondotta che tanto ricorda la grande letteratura di Jorge Luis Borges. Assolutamente centrali sono gli attacchi di epilessia che coinvolgono Esteban, funzionali a far si che, nell’analisi complessiva del film, l’intreccio criminale che percorre e sorregge la struttura della storia non sia più importante della superba caratterizzazione fatta dell’uomo che finisce per rappresentarne la premessa essenziale. “Un paio di secondi prima che succeda so che sto per avere un attacco. C’è un momento, un cambiamento, il medico lo definisce un aura. Le cose cambiano improvvisamente. E’ come se, come se tutto si fermasse e una porta si aprisse nella mia testa facendo entrare le cose. Suoni, musica, voci, immagini, odori. Gli odori di scuola, di cucina, di famiglia, mi dice che la crisi sta arrivando e che non c’è niente che io possa fare per fermarla, niente. E’ orribile ed è perfetta, perché durante quei secondi io sono libero, non c’è scelta, non c’è alternativa, non devo decidere nulla. Tutto si stringe, si avvicina sempre di più, e ne vieni circondato”. Questo è quello che Esteban racconta a Diana quando gli racconta gli attimi che precedono i suoi attacchi di epilessia. Sembra esserne attratto e terrorizzato insieme, come chi sa che, se da un lato quello è un incubo da cui non poter più prescindere, che occorre abituarsi all’idea che può arrivare quando meno te lo aspetti e nel momento meno opportuno, dall’altro lato si è maturata la convinzione che è solo in quel preciso momento che la propria vita è sottratta alla necessità di essere ricondotta ad un insieme di segni da interpretare che chiedono solo di essere indirizzati al perseguimento del “colpo perfetto”. Esteban vive in una prigione costruita su misura delle sue più intime ossessioni : l’una deriva direttamente dal lavoro che fa, dal fatto di essere in perenne contatto con animali da impagliare, di doverne qualificare l’esistenza senza poterne mai constatare la vitalità (e il finale che ce lo restituisce nel suo studio da lavoro in compagnia di un cane lupo sembra confortare questa sensazione) ; l’altra è il frutto di una memoria fotografica che gli consente di imprimere nella mente tutto ciò che vede e  che gli ha fatto maturare la convinzione di poter progettare “la rapina perfetta”, una convinzione tutta giocata sulla matematica calcolazione di ogni soggetto e situazione presenti sul campo e sulla limitazione pressoché totale di ogni effetto indesiderato. Una convinzione fine a se stessa vissuta certamente come un gioco, ma un gioco portato ad un livello tale di precisione progettuale da trasformarsi in aperta ossessione. In tutto questo vivere in continuo contatto col senso di morte, “l’aura” rappresenta una parentesi viva in un esistenza rigidamente determinata, un momento qualificante che interviene ad interrompere spazi di monotona genialità, a sospendere con attimi di imprevedibile casualità la lineare immaginazione di una mente oberata di notizie. Fabiàn Bielinsky è stato bravo a generare uno stato di tensione imperitura investendo quasi tutto sulla problematica personalità di Esteban, sulla dualità di pensiero che ne caratterizza  continuamente l’azione, a fare in modo che i suoi attacchi di epilessia facciano entrare in corto circuito i “giochi banditeschi” di una mente fervida con i segni indiziari di un crimine perfetto da poter finalmente attuare. Come ottima è stata l’idea di fare della bellissima e rigogliosa foresta della Patagonia lo scenario inusuale dell’implacabile missione della morte. Semplicemente straordinaria la prova di Riccardo Darin. Grande film di un autore di talento che ci ha lasciato troppo in fretta.

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