Regia di John Wells vedi scheda film
La crisi internazionale, con il suo strascico di licenziamenti e l’impoverimento esponenziale della classe media (le altre, proletariato e sottoproletariato, sono ormai andate da un pezzo) finisce qui per diventare una felice occasione per ripensare a com’era verde la mia valle allora e com’era bello quando avvitavamo bulloni a mani nude.Pessimo.
Che il “sogno americano” sia in realtà solo un grande incubo è cosa che ormai non dovrebbe stupire più nessuno, ma forse nel 2010, data del film, poteva sembrare un giudizio troppo ingeneroso, se non addirittura di parte.
Eppure erano passati già due anni dal ruzzolone interplanetario di Lehman Brothers, quando investment banking e ricerche di mercato, management nei titoli di stato e alta finanza andarono in caduta così libera che la crisi del ’29, a confronto, era stato solo un volo di farfalle.
C’era però chi si ostinava a crederci in quel sogno ed era John Wells, regista di un film che deve aver pensato facendo un viaggio propiziatorio a Lourdes.
E vediamo perché.
Il cast è di prim’ ordine, come sempre Wells gode di crediti notevoli (nella produzione leggiamo anche un cognome famoso, Weinstein, ma è solo la moglie Paula) ha ottimi direttori della fotografia, la sceneggiatura ha vistose smagliature ma lui sembra non accorgersene continuando a costruire facciate, di case e di vite agiate sull’orlo della bancarotta, dentro le quali getta stereotipi a piene mani, e tutto per raccontare naufragi di gente che guadagna 120.000 dollari al mese, ne spende 600 solo di lavanderia e ristoranti, ma d’ora in poi dovrà stringere la cinghia, non potrà più giocare a golf perché la quota associativa è troppo cara, non andrà in vacanza alle Bahamas per la stessa ragione né userà l’aereo della compagnia per fare shopping a Palm Spring.
Questa gente è purtroppo costretta a vendere la casa a meno di quanto l’ha pagata perché non regge più il mutuo, ma gli 825.000 dollari ricavati sono comunque una bella sommetta.
Resta la domanda: ma quanto l’avrà pagata? Wells non ce lo dice e confina la famigliola in casa dei genitori, due stanzette e bagno in comune. Perché? Mistero, è la sceneggiatura di cui dicevamo.
Comunque capiamo che si sta parlando della faccia triste dell’America, quella che di passo in passo è arrivata a Trump che, in combutta col ciccione coreano, quasi quasi ci farà fare il botto finale.
Per tornare a The company men, apprendiamo dall’inizio che la grande bolla economica si è sgonfiata sulle teste di tutti, si va alla fusione dei settori di produzione e ad esuberi che butteranno sul lastrico una middle class che per anni ha creduto di vivere in Paradiso, scordandosi di pensare ai diritti civili, alle tutele sociali e alle inevitabili ritorsioni del liberismo selvaggio contro i propri fautori, naturalmente dopo aver fatto fuori tutti gli altri.
Sulla breccia restano in pochi, Jim / Craig T. Nelson, azionista di maggioranza, vecchio amico di Gene/Tommy Lee Jonescon cui tanti anni prima aveva costruito tutto e una piccola corte di lecchini a tempo pieno.
Ora Jim è quello che comanda, le leggi del mercato sono fredde come l’Alaska d’inverno e la faccia del povero Gene, che va matto per cene da 500 dollari, suite in hotel da 5000 a notte, ha una vecchia moglie in dismissione e una giovane amante/collega più squalo di Jim, s’impietrisce in un groviglio di rughe.
A Phil/Chris Cooper, invece, gli occhi si riempiono di lacrime che vanno a riempire borse sempre più gonfie, mentre una tenera malinconia da orsacchiotto infelice si dipinge sul volto di Bobby/ Ben Affleck e gli fa perdere il senso del tempo (infatti andrà all’appuntamento per un nuovo lavoro nel giorno sbagliato e poi si scorderà di tornarci in quello giusto).
Tre storie di ordinario fallimento nell’America usa e getta, un’America che avrebbe reclamato ben altra regia per raccontare una storia ancora tristemente attuale, nonostante i tempi veloci a cui anche il cinema si assoggetta oggi.
Il finale tocca il fondo e vede protagonista quasi assoluto Bobby, quello buono (il cinismo ammantato di buonismo degli altri due è da manuale del cinema USA almeno dai tempi di John Wayne).
A lui sarà affidato il compito di dimostrare che l’America ha sempre nuove frontiere da raggiungere e varcare, che “oltre le nuvole c’è il sereno” e “tieni duro e vincerai” (quest’ultimo slogan, urlato col collega nero che condivide le sue sventure di ex manager, è un inno alla convivenza interrazziale).
E il duro arriva, ed è il cognato Jack, un Kevin Costner che ha lasciato per un attimo i campi da baseball per fare il muratore/carpentiere, gestore di una piccola azienda casalinga in cui ci si fa il culo ogni giorno a mani nude, ma si guadagna onestamente, e visto che serve si può far lavorare anche Bobby, prima sempre altezzoso con questo cognato così poco tycoon.
A quasi due terzi del film, l’happy end è la grande scoperta che si può vivere anche con lavori usuranti, che si può non giocare a golf ma tirare al canestro col figlio, che si può stare a casa a rasare il prato mentre al lavoro ci va la moglie che prima mai e poi mai, la donna non lavora, alleva i figli e alla grana pensa il marito.
La crisi internazionale, con il suo strascico di licenziamenti e l’impoverimento esponenziale della classe media (le altre, proletariato e sottoproletariato, sono ormai andate da un pezzo) finisce così per diventare una felice occasione per ripensare a com’era verde la mia valle allora, com’era bello quando avvitavamo bulloni a mani nude, com’eravamo magri e scattanti invece che lardosi ciccioni.
Forse Wells pensa che il mondo vada proprio così, il film è di sette anni fa, bisognerebbe chiedergli oggi se ne è ancora convinto.
Faccia da cow boy stagionato, nato in Virginia nel ’56, Wells ha le stimmate dell’americano di successo che, tra serie televisive e opportuni ruoli di responsabilità nel sindacato, una volta arrivato in California ha visto il suo sogno americano diventare realtà.
La sua società, John Wells Productions, ha sede presso gli studi della Warner Bros a Burbank in California. Fare film in queste condizioni non dev’essere difficile, il ventre molle del potere americano è cosa che lo intriga sempre molto e la sue serie tv di gran successo, tra cui House of Cards, 78 episodi, 6 stagioni con la presenza prestigiosa di Kevin Spacey, è lì a dimostrarcelo.
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