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My Soul to Take

Regia di Wes Craven vedi scheda film

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La recensione su My Soul to Take

di scapigliato
8 stelle

Come Stephen King è maestro probabilmente insuperabile nel narrare l’adolescenza attraverso l’horror e il fantastico, così Wes Craven è ugualmente un maestro nel mettere in scena paure, violenze, pulsioni, morbosità e inclinature dell’adolescenza utilizzando le formule orrorifiche a lui più care.

Passato inosservato in sala e lapidato dalla critica, My Soul to Take è in realtà un condensato della poetica dell’horror-master di Clevaland, almeno quella in declinazione teen nata con Nightmare nel 1984. Il mondo adolescenziale è sempre stato dopotutto oggetto fondamentale per l’industria cinematografica americana, sia per le origini twainiane dell’identità statunitense sia per un più pratico motivo economico, ma anche più sottilmente per meri discorsi politici – formazione di un immaginario di riferimento, codici morali a cui sottostare, moralistiche lezioni di vita civile, etc. Campo privilegiato per questo settore è sempe stato il genere horror attraverso il quale Hollywood imponeva rigide regole di condotta esprimendo su schermo tutta la propria severità, e perché no?, tutto il suo fascistoide ideale di giovane soldato della società americana benedetta da dio. Anche il western, soprattutto di serie B o quelli musicali con Roy Rogers, erano semplici impalcature che narrativizzavano una semplice equazione: trasgressione uguale morte. La sfera della sessualità, della laicità, della ribellione, dell’anticapitalismo erano tutte moralizzate e condannate in nome di una politica di consenso popolare fondata sui miti protestanti di successo e ipocrisia. È da qui che nasce la poetica orrorifica di Wes Craven, nato sotto il segno della confessione battista, ovvero un continuo scontro con l’ambiente borghese, fin da subito messo al muro con L’ultima casa a sinistra (1972), la religione come strumento di plagio, che ritroviamo come denuncia trasversale e indiretta in tutta la sua opera, oppure la sessualità come grande turba delle società civilizzate incapaci di realizzare il passagio dalla tribalità alla modernità del proprio istinto sessuale – tant’è che cannibalismo e sesso, o smembramento e sesso, si ripetono in Craven quasi regolarmente anche se non sempre con lo stesso successo – basti vedere Le colline hanno gli occhi (1977) e l’irrisolto Cursed (2004).

Il tema cardine, poi declinato anche come motivo, di tutto il new horror americano dei ’70, di cui Craven è una delle pietre miliari insieme a Hooper, Romero e Carpenter, è la famiglia disfunzionale. Genitori assenti, violenti, piuttosto che famiglie incestuose, compiacenti, votate all’abominio, sono solo alcune delle caratteristiche testuali con cui viene di volta in volta descritta la disfunzionalità della famiglia americana, che è poi in senso lato l’America stessa e quindi nella figura di padre e madre ecco tornare i fantasmi del popolo indiano massacrato, oppure l’Inghilterra da cui naque l’indipendenza, o più psicologicamente parlando, uccidere il padre, fuggire dalla madre, come psicodrammi della nascita di una nazione che contiene, neanche poi tanto timidamente, un serbatoio di irrisolti mai profondamente indagati.

Si verifica tutto anche in My Soul to Take. La famiglia non è solo disfunzionale, ma è il luogo originario del male. I genitori o i parenti più stretti, non sono solo complessati, ma sono portatori insani di disequilibrio, isteria e instabilità perpetua. Il passato, invece di essere glorioso nelle memorie, è oscuro e ferino, miete le sue vittime. E questi due principali elementi della struttura narrativa non possono lasciarci indifferenti. Sono infatti i primi topoi dell’immaginario americano su cui il potere ha edificato le proprie logiche di consenso: la famiglia e il passato glorioso. Vederli rocambolare tra sgozzamenti e spruzzi di sangue, è sacrosanto diritto dell’horror. Wes Craven riesce davvero a utilizzare queste immagini archetipali negativizzandole nonostante una messa in scena sterile che strizza l’occhio al piattume televisivo, capace poi di sorprendere nel taglio, nella coreografia delle scene e nella insita cattiveria dell’intenzione autoriale iniziale.

La sfera sessuale è invece trattata in modo inusuale. Il personaggio del bulletto del liceo, che crede di essere figo solo lui, di essere desiderato da tutte le donne, di essere superdotato, di pretendere rapporti orali come se fossero favori tipo “mi dai una sigaretta?”, è chiaramente una parodia. In questa macchietta, il regista si diverte a prendere in giro lo stereotipo del classico bel ragazzo americano, celebre quarterback della scuola, di chiaro successo con le ragazze, oggettivamente bello secondo il canone WASP, facendolo interpretare da un giovane attore non esattamente in linea con questi canoni. Il risultato è la parodistica resa di un’esagerata autostima improntata sulla bellezza estetica, il successo sociale e la performance sessuale, tipicamente americani. Inoltre, non sono rari i momenti di intimità tra i due migliori amici protagonisti della storia, Max Thieriot e John Magaro che, come prassi adolescenziale vuole, sono molto legati, quasi empatici, e condividono momenti triviali senza nessun imbarazzo. Che l’inclinazione all’omoerotismo sia questione adolescenziale lo confermano i dubbi e le paure del protagonista verso il sesso opposto, mentre la confidenza e la gelosia, infine il sospetto, agiscono sulla coppia protagonista come destabilizzatori e conseguenti eccitanti. Va detto che sono diretti con una certa ambiguità la maggior parte dei dialoghi e dei confronti tra i due amici protagonisti, lasciando nell’aria quella rarefazione di identità tipica dell’età adolescenziale.

Il sesso quindi, pur appartenendo ad un prodotto main-stream, attraversa l’intera narrazione e diventa uno dei maggiori dispositivi di essa. Non è fondamentale, ma è un aspetto che coinvolge gli squilibri del protagonista, che non solo è azzeccato nella parte, ma è capace di giocare con i tic che gli sono stati assegnati creando un personaggio a metà strada tra il romantico e il comico, tra il parodistico e il tragico. La sua multipla natura, i suoi continui pseudo-cambi di personalità, le sue schizofrenie, lo assurgono a “mostro”, a creatura frankensteiniana, allontanato dal gruppo sociale, dalle ragazze – eccetto una, l’invasata religiosa – e dagli adulti, tranne che dalla madre colpevole di molti segreti.

E qui si chiude il cerchio. La famiglia è l’epicentro del male. Come un cane che si morde la coda rincorrendosi inutilmente, l’istituzione borghese della famiglia, come della scuola, delle forze dell’ordine e della Storia nazionale, continua a imporsi pateticamente come unico, saldo e sano riferimento educativo, proponendosi come luogo tutelare e generatore di amore, per poi dimostrare l’esatto contrario e tornare, noncurante dell’esito negativo, a ribadire la propria superiorità morale. E non solo il film aggredisce il mondo borghese di Elm Street attraverso tematiche mai sopite, ma grazie a motivi codificanti il genere e a un linguaggio nuovo, che è costato al regista l’indifferenza del pubblico, è pure irruente nel suo metterle in scena. Il montaggio rapido ed ellittico, l’imprevedibilità dei cambi di registro e di tono, piuttosto che alla solita messa in scena craveniana, dove attori e ambienti sono coreografati impeccabilmente con gran gusto plastico come il regista ci ha sempre abituato, sono i caratteri più spiccatamente autoriali che si possono riconoscere in My Soul to Take.

C’è qualcosa nella potenza visiva di Craven che, se gli abboniamo qualche scivolone che sappiamo bene non è per colpa sua ma per la produzione che vuole sempre imbrigliarlo nei paletti della grande distribuzione, sa sempre colpire, affascinare e turbare, oltre che a cullare e a sedurre. Attraverso questo mondo adolescenziale, il teen-horror non scade mai nella banalità del databile, perché l’adolescenza si perpetua nelle trame della narrazione, nelle sue immagini, nella sua rappresentazione simbolica e sintetica di temi e motivi cari ad essa. E come se non bastasse, il referente animale del condor della California aggiunge autorialità su autorialità, usando una specie minacciata e in via d’estinzione come animale totemico del giovane protagonista, anche lui in pericolo di vita, ma non solo. Max Thieriot è anche l’immagine spudorata dell’adolescenza selvatica e irrefrenabile, senza codici previ e senza punti programmatici. Se non è proprio l’(im)perfetto adolescente dei film di Larry Clark o Gregg Araki, in cui la selvatica dote adolescente è poetica del visibile, in Craven l’adolescente è comunque il principale rappresentante della libertà indomata che si ribella alle traiettorie dogmatiche della condotta borghese. E lo fa utilizzando la metafora del condor californiano come gioco di maschere – bellissima la scena della dimostrazione in classe dove i due amici protagonisti presentano ai compagni il loro lavoro sul grosso uccello predatore – per nascondersi e disinibire così la rabbia e l’oppressione del mondo adulto, nel tentativo di salvare l’anima.

Un film che va riscoperto, tanto è profondo nel suo gioco autoriale di temi e contenuti ben intrecciati, gli uni a rappresentare gli altri, oltre che ad essere un bel meccanismo a orologeria – anche se i due finali alternativi e l’incipit alternativo confondono un po’ l’idea  che il regista ha del prodotto finale – con delitti poco arzigogolati, ma semplici, rapidi, veloci, e con qualche trovata visiva interessante che non ci fa rimpiangere affatto il vecchio Craven.

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