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Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su 127 ore

di Antisistema
5 stelle

Fatico molto ad entrare in sintonia con Danny Boyle ed il suo cinema, a tutt'oggi tranne il bello e sottovalutato Sunshine (2007), i restanti film suoi da me visionati come Beach (2000), Milionaire (2008) e Trainspotting 2 (2013), mi hanno fatto abbastanza pena e questo 127 ore (2010), non si muove più di tanto dalla zona mediocrità nonostante l'esaltazione generale di mezza critica mondiale e ben sei nomination agli Oscar tra cui miglior film, sceneggiatura non originale, montaggio e attore protagonista. Sono candidature che mi hanno lasciato perplesso, perché tre di questi punti sono gli elementi deboli dell'opera.

Boyle non ha mai avuto molto da dire in termini di profondità a livello sostanziale nel suo cinema, per questo punta molto su una forma aggressiva, marcata e fortemente esibizionista, che non nasconde mai le sue influenze videoclappare o pubblicitarie.

 

 

Una storia vera come quella dell'escursionista Aron Ralston (James Franco) intrappolato in una gola profonda di un canyon dello Utha profondo 20 metri ed impossibilitato ad uscire poiché un grande masso gli blocca il braccio destro, dovrebbe aiutare maggiormente Boyle a raggiungere la sostanza, di cui spesso il suo cinema difetta. 

I primi 3-4 minuti non sono malaccio nel descrivere Aron come un individuo solitario che tende ad estraniarsi dal flusso conformista della massa urbana, decidendo di andare in un luogo sperduto piuttosto che stare immerso un minuto di più nel caos metropolitano. Flusso continuo ininterrotto che avvolge anche un folto gruppo di ciclisti in cui Aron si imbatte in direzione opposta alla sua, gettando su di loro un'occhiata confusa e straniata. La compagnia non è il suo forte; la musica, la bicicletta, il culto della propria immagine e l'isolamento sono gli elementi fondativi della sua vita.

 

 

Non è quindi una persona dalla vita molto interessante, anche per via di un comportamento da sbruffone e di costante sfida alla natura. Boyle inserisce quindi split screen a manetta, inquadrature da tutte le angolazioni e distanze, con uno stile che vorrebbe emulare il documentario tramite l'asciuttezza del digitale, ma la sensazione è quella di guardare tanti mini-spot intervallati da inserti musicali e sonori, che cozzano pesantemente con il luogo in cui ci si trova. 

Ci si aspetterebbe maggior sobrietà registica quando Aron rimane con il braccio intrappolato tra roccia ed un masso, l'emersione del dramma umano, il senso di totale solitudine ed un'attesa infinita verso una sorte che può sfociare solo nella morte, visto che Aron molto furbescamente non ha avvertito nessuno

della sua escursione; ed invece Boyle intervalla tutto con mini flashback scarsamente interessanti e visioni da delirio, che amazzano il senso del delirio stesso. 

Nell'arco dei 90 minuti si fatica a capire il costrutto della regia di Boyle, troppo sparata anche per via di una fotografia poco convincente nel restituire l'atmosfera del canyon, sfociando appieno in una sorta di pubblicità da cartolina del posto.

 

 

Pubblicità che riaffiora costantemente, perché Boyle non riesce a dare un filo unitario al suo film, intervallato di continuo da trovate registiche di dubbio gusto e reiterate di continuo.

L'acqua quando si tratta di sopravvivere è elemento imprescindibile, possiamo sopravvivere giorni senza mangiare, ma non più di una giornata senza poter bere. Razionare l'acqua nella borraccia è prioritario per Aron, acqua che tra l'altro è parte essenziale di ogni essere vivente e elemento che ha contribuito nell'arco di milioni e milioni di anni, a formare e plasmare i vari paesaggi del pianeta.

La lunga gola del canyon in tempi lontani sarà stata un letto di un fiume, che nella sua attività di erosione ha creato tale affascinante luogo, eppure così ostile alla vita e ad Aron, il quale suo malgrado rischia di morire lì. 

Il freddo disperde il calore e mantenere attivo il corpo umano consuma energia e liquidi vertiginosamente, per questo si anela qualcosa da bere, ma anche una scena che dovrebbe sfociare nel baratro della sofferenza, con un movimento veloce di macchina in piano sequenza, si trasforma in uno spot cafone arrivando al traguardo a fossilizzarsi sul Gatorade (sbattuto in faccia in primo piano), per poi lanciare una pubblicità sulle bevande abbastanza oscena, per rappresentare una situazione in cui i limiti mentali stanno cominciando a venire a galla.

 

 

Boyle smuove la macchina da presa, puntando a mostrare a pubblico e critica le sue capacità istrioniche, con esiti purtroppo non sempre felici visto che lo sguardo del regista resta sempre superficiale, senza mai scendere in profondità se non una ripetuta sottolineatura del simbolismo dell'acqua, tramite li inquadrature dell'interno di una borraccia sempre più drammaticamente vuota, una pozza d'acqua dal sapore "iniziatico" e la sequenza finale in piscina per sottolineare una rinascita e una nuova vita del protagonista. Le 127 ore di trappola, hanno mondato e lavato via il vecchio Aron, a favore di una nuova persona. Sequenze crude e girate asetticamente, come l'amputazione del braccio, si scontrano fortemente con lo stile di Boyle ipercinetico, che rende difficile appassionarsi alla storia, finendola tra l'altro con il renderla meno realistica di ciò che è stata. Praticamente il solito Danny Boyle verrebbe da dire, anche se Sunshine fu una bella sorpresa, che si spera prima o poi possa ripetere.

 

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