Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Varie adunate di massa aprono in split screen i titoli di testa di 127 ore, come a dire che il protagonista Aron Ralston scappa via dalla pazza folla e pure dai cartelloni pubblicitari. Non ha lo spessore esistenziale del Chris McCandless di Into the Wild, piuttosto il semplice gusto dell’avventura. Aron si reca nel deserto roccioso dello Utah, dove si nascondeva Butch Cassidy, ma dimentica il coltellino svizzero e di lasciar detto a qualcuno dove è andato. La lezioncina, tratta da una storia vera, è tutta qui. Boyle inscena non tanto la vicenda di un ragazzo intrappolato, quanto una lotta tra il regista e il proprio soggetto. Combatte l’isolamento, la staticità e il silenzio con tutti gli espedienti esistenti: dall’accelerazione al ralenti, dai flashback alle allucinazioni con effetti speciali, dal montaggio videoclippato sull’insistente colonna sonora fino a una finta soggettiva con suspenseful music – manco fossimo in un horror – e a un’immaginaria intervista con risate registrate. Il tonitruante miscuglio di trovate frantuma l’intensità della performance di James Franco e pure il viaggio mentale non va oltre banali ricordi e speranze. Boyle gioca la carta del surreale, con bambine pianiste tra le rocce, ma senza avvicinarsi, per esempio, al talento visionario di Gondry. In compenso, firma il più spudorato product placement di sempre, con una spasmodica corsa che raggiunge una bibita energetica, la cui marca ci viene sbattuta in faccia. E così ogni onestà narrativa finisce svenduta al miglior offerente.
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