Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Parte come “Into the wild” finisce come “Buried”, questo “127 ore” è un film adrenalinico nonostante le numerose scene in cui il protagonista, un bravissimo James Franco, rimane da solo con le rocce e il deserto. Merito del regista Danny Boyle, che conferma la sua innata capacità di saper attingere dagli strumenti giusti per spettacolarizzare adeguatamente la visione: split screen, flashback, uso della musica extra e introdiegetica, montaggio serrato, commistione tra onirismo e realtà, nonché numerose situazioni antonimiche (l’emblema sono i titoli di testa in cui si vedono scene di massa quotidiane, apparentemente banali, ma che tornano alla mente dello spettatore più sensibile durante il silenzioso degrado del protagonista).
Il compito più difficile per Boyle era quello di allestire in maniera accattivante per il grande schermo un romanzo sicuramente interessante, figlio di una storia vera che non poteva non ispirare un film, ma che proprio dai sottesi, da ciò che il lettore non riesce a vedere e dunque soggettivamente è costretto ad immaginarsi traeva la linfa più succosa. Da questo punto di vista, forse Boyle ipertrofizza la spettacolarizzazione, facendo perdere di vista il reale turbamento interno del protagonista, che diviene una propaggine delle sue allucinazioni. Se si vuol trovare un altro, banale, ma evidente difetto della messa in scena, ci si può riferire alle didascalie come unico elemento testimone del passaggio delle ore e dei giorni: per il resto la barba non cresce, la maglietta rimane come appena uscita dalla stireria, il viso non si sporca, il braccio non si fa livido. Ovviamente fino all’estremo, drammatico e disgustoso epilogo, trattato da Boyle in maniera perfetta.
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