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Freakonomics

Regia di Heidi Ewing, Alex Gibney, Seth Gordon, Rachel Grady, Eugene Jarecki, Morgan Spurlock vedi scheda film

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La recensione su Freakonomics

di barabbovich
8 stelle

Ve lo ricordate Morgan Spurlock, quello che, per dimostrare quali incalcolabili danni causasse un'alimentazione da fast food, mise a repentaglio la propria salute per girare Super size me? E Alex Gibney, quello che diresse il documentario su uno dei tanti episodi vergognosi della finanza a stelle e strisce, quello che riguardava il caso Enron (Enron - L'economia della truffa)? Qualche amnesia vi colpisce leggendo il nome di Seth Gordon, il regista graffiante di quella commedia gialla politicamente scorretta che si chiamava Come ammazzare il capo... e vivere felici? Beh, rispolverate i loro nomi perché i tre si sono coalizzati con altri registi per portare sul grande schermo il best seller firmato a quattro mani da Steven D. Levitt (professore di economia all'Università di Chicago) e dal giornalista Stephen J. Dubner, collaboratore del New York Times. Titolo (potremmo tradurlo con "le mostruosità dell'economia") e sottotitolo ("Il calcolo dell'incalcolabile") già dicono tutto sui paradossi dell'economia e su come i due autori abbiano inteso fare luce su fenomeni apparentemente inspiegabili. Qui ne vengono presi in considerazione quattro: l'influenza dei nomi propri sulla vita delle persone (Spurlock); gli incontri combinati nei combattimenti di sumo, in Giappone (Gibney); le cause che hanno contribuito alla decrescita della criminalità negli Stati Uniti a partire dagli anni '90 (Jarecki) e il sistema degli incentivi economici sui risultati scolastici degli studenti (Rachel Grady ed Heidi Ewing). A cucire il tutto con interviste ai due autori del libro originale e con le animazioni ha provveduto Seth Gordon. Episodi tutti di ottimo livello, con montaggio serrato, animazioni efficacissime, dosi sostanziose di ironia. Meritano però una menzione particolare quello sui nomi e quello sulla criminalità. Nel primo caso, da un lato si apprende che, al momento della presentazione di un curriculum, i nomi tipicamente "da bianchi" (Jack, John, Sarah) hanno molta più probabilità di suscitare l'interesse dei selezionatori rispetto a quelli dei neri (tipo Jamal: a parità di condizione, è ovvio), mentre dall'altro scopriamo che certe superstizioni nei nomi (per esempio, le moltissime varianti di "Unico": Uneekk, Uneque, Unique e così via) non garantiscono alcun successo, come d'altronde dimostra anche la storia di un genitore mezzo pazzo che ha chiamato Winner il primogenito e Loser il secondogenito, col risultato che quest'ultimo si è affermato alla grande e l'altro ha una fedina penale chilometrica. Oppure la vicenda del genitore finito davanti al giudice, imputato del fatto che la figlia, che ha chiamato Temptress (tentatrice), non ha preso esattamente la via delle carmelitane scalze. Indovinate un po' cosa è andata a fare?
Menzione speciale anche per l'episodio che spiega la diminuzione della criminalità: poliziotti di quartiere, controllo della vendita delle armi e misure repressive sono solo una parte (piccola) della spiegazione. Il grosso sta… nella legalizzazione dell'aborto! Già, perché come documenta anche il caso (rovesciato) della Romania di Ceausescu, i figli non voluti sono spesso destinati alla devianza. E siccome la punta della propensione al crimine si raggiunge nell'età tra i 18 e i 25 anni, ecco che, quando la generazione nata ai tempi della legalizzazione dell'aborto nella maggior parte degli stati americani è diventata adulta, il numero di reati è diminuito: tra loro c'erano pochi figli indesiderati. Chapeau!   

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