Regia di Ben Wheatley vedi scheda film
“Causticamente divertente” (come viene definito nel lancio dalla sua stessa locandina), prima di dare alle stampe tutti quei film che gli daranno in seguito un certo credito oltra ad un minimo di notorietà e di successo (il perfido “Kill List” nel 2011, gli ostici e un po’ crudi “Sightseers” e “A Field in England” rispettivamente nel 2012 e 2013, fino al divertentissimo “Free Fire” nel 2016) nel 2009 Ben Wheatley, regista inglese a mio parere molto interessante, si presentò con questo “Down Terrace” che, nonostante alcuni lusinghieri riconoscimenti di Festival minori, non riuscì ad andare, in termini di distribuzione, molto più in là rispetto ai soliti confini anglofoni e Regni (dis)Uniti limitrofi, oltre a qualche eccezione per l’Europa dell’estremo nord, Russia compresa. Peccato, perché a mio parere tra i film di Wheatley (per essere più esatti: tra quelli che ho potuto vedere io e che ho citato sopra) trovo che “Down Terrace” sia sicuramente il più pregevole, quello meglio riuscito ed il più “promettente” di tutti. Con questo non voglio dire che il livello del lavoro complessivo di Wheatley sia andato col tempo abbassandosi, ma è come se “Down Terrace” corrispondesse all’uovo (liscio, levigato, perfetto, simbolo primordiale insostituibile e inattaccabile pur nella sua fragilità) e tutti gli altri lavori ai problematici, pigolanti tentativi di farsi strada nel duro mondo delle aie cinematografiche. Resta comunque assodato che da un regista come Wheatley non sai mai cosa aspettarti quando lo vai a vedere (non è necessariamente un merito, ma nel nostro caso direi di sì), e che comunque difficilmente ne resti deluso.
“Down Terrace” è a mio parere molto più che “caustico” (io lo definirei “crudele” se non si rischiasse così di spoilerare) , mentre per convergere sul “divertente” dovrei (at)tentare a citazioni troppo azzardate per un cinefilo dilettante come me (butto lì un nome come Tarantino, o un titolo come “Carnage” di Polansky chiudendo gli occhi e incrociando le dita...). Ma è un film che ha soprattutto due pregi: quello di saper complicare con semplicità una vicenda familiare psicologica truccandola da “Spy Story” (o viceversa) la quale non è mai una Spy Story se non quando la camera non si decide a fermarsi, indugiando su qualche riflessione a voce alta dei suoi protagonisti; e quello di saper accompagnare la narrazione attraverso i testi e le musiche folk della pregevolissima colonna sonora, alla quale si aggiungono i siparietti musicali domestici dove le chitarre e gli altri strumenti, mai perfettamente accordati tra loro, rimandano a quello scalino di disarmonia che appare lieve, ma che, nell’epilogo tragico ed agghiacciante, sarà alla fine la misura di quanto possa essere fondamentale ogni minimo dettaglio in contesti fattisi così delicati e precari.
Una prova di equilibrismo, in sintesi. Un film che cammina sul baratro fischiettando con malcelata indifferenza, che della bellezza della natura a ridosso della città riesce a cogliere solo “il buon profumo di merda” (scusate, è citazione più o meno testuale...), mentre delle relazioni familiari e del loro valore va perdendo tutto fino alle estreme conseguenze, come nei versi di quell’ultima canzone che canta dell’archetipico perdersi nel bosco di quei due bravi bambini.
Doverose infine le congratulazioni a tutto il cast, in particolare al duo Robert e Robin Hill, padre e figlio nella vita come nel film, con l’inquietante Robin anche in veste di co-sceneggiatore della storia insieme al regista.
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