Regia di James L. Brooks vedi scheda film
Il film prova a raccontare i vizi e le responsabilità di una società che degrada il sentimento in un mondo in cui l’obiettivo prioritario resta quello della visibilità e del successo a tutti i costi. I tratti sono quelli della commedia rosa, il che non aiuta ad approfondire adeguatamente (o almeno quanto sarebbe stato necessario) l’argomento.
Come lo sai (che intende porre proprio una domanda che spesso non ha risposta, ma che ciascuno di noi si fa sempre di fronte alle improvvise necessità di scelta che la vita ci presenta: come si fa a capire se un’attrazione è ricambiato amore o si tratta invece di una momentanea, provvisoria “fascinazione”, e di conseguenza la persona che credi di aver scelto non è proprio quella giusta?; come si deve reagire al crollo inaspettato del proprio mondo che precipita insieme alle ambizioni e alle certezze?; come si capisce se un padre ci vuole veramente bene e non ci ha invece solo usato?) dovrebbe essere la nuova commedia romantica di James L. Brooks, per lo meno in apparenza, perché ci sono chiari segnali che indicherebbero invece il desiderio del regista di volare più alto, come spesso fa con il suo cinema, specie con le opere più riuscite come Qualcosa è cambiato, tanto per fare un esempio concreto. Anche questa volta mescola infatti ingredienti e sapori prettamente sentimentali e “leggeri” con l’evidente intento di fornirci uno spaccato un po’ amaro di una società tutt’altro che idilliaca, ma c’è però qualcosa che non mi convince completamente nel risultato, nonostante il gusto della citazione che ben suggerisce il percorso da seguire e l’obiettivo prefissato (l’omaggio a Kramer contro Kramer, per esempio, più che dichiarato, è manifesto), come se l’amalgama fra una superficie da commedia rosa e un contenuto che può essere anche letto come un sofferto dramma esistenziale di solitudini e silenzi che si rincorrono e rischiano di non incontrarsi mai, non fosse del tutto lievitato (o almeno così è parso a me a una prima visione di un’opera che forse meriterebbe un’analisi più approfondita probabilmente necessaria per farci percepire meglio ciò che il regista ha inteso camuffare sotto la “scorza” esterna che lascia però intravedere di ciò che è nascosto in sottotraccia, molto meno di quanto sarebbe stato invece necessario).
Quello che colpisce a prima vista è infatti quasi un “controsenso”: se viene mantenuta in pratica la consueta “carineria” di facciata della confezione, è proprio il supporto registico che sembra non brillare a sufficienza, tanto da apparire pressoché inesistente, opaco e un po’ minimalista (e non può che essere una scelta, visto come è orchestrata tutta la materia, non certo un incidente di percorso), quasi come se Brooks avesse cercato di esprimersi con una specie di “spontaneismo” anche visivo (Pontiggia, drasticamente negativo al riguardo, ne definisce impietosamente l’esito come una sciatteria da candid camera) che evita e rifugge da ogni elaborato guizzo della macchina da presa. Il film risulta infatti totalmente privo di artifici tecnici e di “impennate” di ripresa, visto che forse il solo vero “azzardo” sta nell’aver scelto un montaggio a tratti parallelo che meglio focalizza i momenti di “pausa” in una pellicola dove – al di là delle battute e delle gags – forse proprio i silenzi contano più della conversazione, il che determina a volte un piccolo corto circuito nello spettatore perché a mio avviso, mentre si sorride, risultano invece insufficienti i coinvolgimenti drammatici nell’andamento eccessivamente piatto dell’assunto, nobilitato semmai da qualche gustoso “estro” degli interpreti, che nel complesso però nonostante gli altisonanti nomi, non brilla tutto e sempre (né risulta totalmente omogeneo) come invece altre volte è accaduto.
La protagonista assoluta di questo Come lo sai è Reese Witherspoon (Liza), sempre a posto e “curata” nella resa, che io però non amo alla follia per quella sua aria un po’ vezzosa da “prima della classe” che anche qui prevale su ogni altra cosa. Questa volta veste i biondi panni (sarebbe ben più giusto dire la “maglia”), di una giocatrice di softball , una passione antica che ha coltivato si può dire da sempre con successo e gratificazioni, che l’ha portata a giocare addirittura per la Nazionale degli Stati Uniti (correggetemi se sbaglio, perchè non sono molto ferrato in campo sportivo, e questa disciplina in particolare, mi è tutt’altro che familiare). Ma quando ci si avvicina alla soglia dei trent’anni (se la si sorpassa è addirittura peggio), nello sport sono sempre guai, questo lo si sa già in partenza, perché la fine (della carriera e della gloria intendo) è prossima e inevitabile, e anche la nostra eroina che ormai transita in zona Cesarini, sconta lo “scotto” di essere “attempata” (si fa per dire) e paga il fio di una inevitabile “declassazione” (quella di essere messa fuori squadra per raggiunti limiti di età). Frustrata quindi sul versante agonistico in quel delicato momento “di passaggio”, non ha particolari “gratificazioni” ormai nemmeno in campo sentimentale. Il suo cuore batte infatti all’impazzata nella direzione sbagliata (premessa inevitabile per virare in prossimità di una possibile “triangolazione” amorosa), poiché si è innamorata di un egocentrico narciso “preso” soprattutto da se stesso e dalla voglia di restare sulla cresta dell’onda (visto che a lui il successo non gli manca proprio) e che non ha voglia né tempo per fermarsi a guardare e a considerare qualcosa che stia al di là del proprio naso o di ciò che riflette lo specchio della sua vanagloria. Di nome Matty, è a sua volta biondo, bello, sportivamente intraprendente e soprattutto uno che mantiene alta la posizione di indiscussa star del baseball (un Owen Wilson stralunato e un pò sopra le righe, devastante come un tornado nel mostrare espansa alle estreme conseguenze, la sua un po’ vacua e sciocca immatura megalomania “infantile”). Intorno a loro, “girano” altri personaggi afflitti da differenti traumi e problemi, e qualcuno sembra passarsela addirittura peggio, come George (Paul Rudd) un businessman costretto a confrontarsi con le malversazioni finanziarie di suo padre Charles che lo ha messo in mezzo (un luciferino Jack Nicholson qui forse non sfruttato al meglio delle sue possibilità, anche se resta ugualmente “grande”, pur sfiorando a volte la maniera) e che, pur incolpevole poiché è solo il figlio di colui che ha poi commesso i fatti, finisce nel mirino dei federali (che si sa in America scherzano davvero poco, e visto che le disgrazie non arrivano mai sole, viene anche inopinatamente piantato dalla fidanzata), o la nevrotica Annie (Kathryn Hahn), segretaria tuttofare divisa e incerta fra il suo voler essere leale nei confronti di George e la costrizione di dover invece seguire le disposizioni della Società per la quale lavora, che impongono il silenzio assoluto e l’omertà.
Saranno alla fine i destini di Liza e George ad incrociarsi spesso sbagliando quasi tutto, dagli appuntamenti alle telefonate, e utilizzando male persino i silenzi e le parole (così che solo l’essere andati un po’ fuori di testa per una “salutare” ubriacatura scacciapensieri rappresenterà alla fine la vera molla che consentirà ad entrambi di aprirsi un poco e di svelarsi l’uno a all’altra con minori pudori e reticenze).
Quindi, come in Qualcosa è cambiato c’è ancora una volta una forte lente di ingrandimento che intende mettere a nudo due vite per raccontare soprattutto i “vizi” e le responsabilità di una società che degrada il sentimento, e inopinatamente alimenta e privilegia invece quella “voglia prioritaria” di essere qualcosa o qualcuno per esistere davvero, costi quel che costi. Il canovaccio e l’andamento della storia, sono in questo assolutamente ligi (ossequiosi direi) a rispettare tutti i canoni codificati della commedia “rosa”, tanto che in qualche tratto sembra di respirare proprio una fastidiosa aria di dejà vu che non aiuta certo ad adoperarsi troppo per “guardare” oltre, come forse chiederebbe l’impegno complessivo del regista (ma se manca un adeguato sforzo in questa direzione, alla fine davvero rimane solamente una piacevole “rivisitazione” un po’ aggiornata di una modalità e di un genere che non soddisfa pienamente il palato). Brooks pensa di potercela fare ad essere compreso, cambiando semplicemente il passo della rappresentazione, ma la storia risulta poi alla fine così riconoscibile e “banale” nonostante tutto, che per raggiungere davvero il risultato confuso fra le pieghe del racconto, avrebbe dovuto per lo meno tentare un più drastico “svecchiamento” del congegno, e attuare una riflessione metalinguistica maggiormente elaborata e “consapevole”, smontando i meccanismi un po’ usurati della convenzione con una dose massiccia di “perfida” arguzia e un pizzico di critico cinismo, che sono poi gli ingredienti ottimali che avrebbero consentito, mettendo un po’ di pepe nell’illanguidimento sentimentale di un processo di incontri e scontri inevitabilmente destinato al lieto fine, di suggerire con maggior convinzione la necessità di far penetrare il nostro sguardo “sotto la superficie”.
La discontinua bravura di (quasi) tutti gli interpreti supplisce a tratti nell’intento, ma non è del tutto sufficiente a rendere definitivo e compiuto il progetto del regista: la Witherspoon (come già accennato) è sempre e solo se stessa senza particolari slanci o “innovazioni” introspettive che la smuovano dal ruolo di rinnovata “eterna” fidanzatina d’America, mentre Paul Rudd, il giovane affarista troppo sensibile e idealista, eccede un tantino in mossettine , ed è soprattutto con queste che esprime il suo sofferto travaglio interiore. Se la Hahn si conferma diligente e adeguata al ruolo, è proprio Owen, perennemente arruffato e con lo sguardo insicuro e malandrino di un Peter Pan che non vuole crescere, che si impone allora “al meglio” delle sue capacità grazie al suo ben rodato, personalissimo “stile” di recitazione. Rimane da parlare di Jack Nicholson (un Jack Nicholson malinconicamente invecchiato e un po’ gigione), come al solito interprete di eccellente levatura, che si dimostra (a mio modesto parere) efficientissimo e mefistofelico, su questo non c’è alcun dubbio, ma ormai un po’ stufo delle ripetitività (e marginalità) dei ruoli che gli vengono purtroppo ultimamente proposti (se ne è di recente lamentato, ritenendoli quasi mai corrispondenti alle sue potenzialità, e soprattutto “inadeguati” alla sua straordinaria creatività), e utilizza per questo principalmente il “mestiere” più che l’ispirazione (il che rende il risultato meno “eccitante” e un po’ più legnoso del solito). Ma basta evidentemente un momento, un ghigno, uno scrutare di sottecchi, per rendere giustizia al suo talento che lo pone così di nuovo con prepotenza al centro dell’attenzione, facendolo diventare, pur da una posizione di “secondarietà”, lo straordinario burattinaio che muove quasi tutti i fili dell’intera vicenda.
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