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Come lo sai

Regia di James L. Brooks vedi scheda film

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La recensione su Come lo sai

di Spaggy
8 stelle

Due vite sembrano scorrere tranquille, quella di Lisa Jorgenson, che fin dall’età di 8 anni gioca a softball fino a divenire punta di diamante di una squadra capace di vincere la medaglia d’oro ai Mondiali, e quella di George Madison, giovane affarista in carriera che lavora nella prestigiosa società del padre, il mefistofelico Charles. I due giovani, causa un’amica in comune, rischiano di incontrarsi per un appuntamento al buio che sono costretti a rimandare per via dei loro impegni personali. Ma il destino spesso è beffardo e ci mette poco a rimescolare sorti e desideri: lei si ritrova improvvisamente fuori dalla rosa tecnica e sportiva della sua squadra a causa della vecchiaia dei suoi 31 anni, lui invece viene sottoposto ad accertamento fiscale per via di affari loschi in Medioriente di cui non è a conoscenza e di conseguenza è costretto ad allontanarsi dal lavoro.
 


Che fare allora per reinventare le loro vite? La risposta è semplice: cominciare a vivere camminando con i propri piedi, ognuno con una strada da percorrere. Lisa decide di provare a realizzare il sogno comune di ogni ragazza: trovare un fidanzato e dedicarsi alla sua disastrosa vita privata. Comincia a frequentare Matty, un giovane campione sportivo plurimilionario e affetto da sindrome di Peter Pan.
 


Charles, invece, inizia ad indagare sugli affari della società per difendersi dalle accuse federali. Di grande aiuto è la segretaria del madre, Annie, single alle prese con le ultime settimane della sua gravidanza particolarmente isterica. Mollato nuovamente anche dalla fidanzata, troppo presa dallo scrivere un libro, decide di chiamare Lisa e invitarla a cena. Un incontro disastroso in cui la migliore conversazione è caratterizzata dal silenzio che i due si impongono. Sarà solo l’inizio di un anomalo rapporto che esploderà lentamente.
 


La sensazione che si ha vedendo il film è di essere stati presi in giro. Com’è possibile che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di due must cinematografici come “Voglia di tenerezza” e “Qualcosa è cambiato”? È mai possibile che la pericolosa discesa avviata con “Spanglish” diventi qui declino inesorabile? A che scopo realizzare un film il cui montaggio parallelo risulti spesso inappropriato e sconclusionato? Su quale assunto della sceneggiatura sono basati i dialoghi spesso banali e/o da teen comedy? Perché sprecare Jack Nicholson e il suo sguardo lucifero in pochissimi minuti di preziosa interpretazione? Perché riempire l’intera opera di frasi fatte, scritte e pronunciate? Perché costruire personaggi surreali quasi dotati di doppia personalità e incapacità di espressione?
 


Scandagliando il tutto a fondo emerge invece una chiave di lettura amara basata sull’incapacità di comunicazione di oggi. Tutti i personaggi parlano per frasi fatte o citazioni da post it appesi negli specchi del bagno, si lanciano proclami e sentenze, si enunciano filosofie di vita da psicologia spicciola, ci si comporta in maniera prestabilita come se si seguissero gli ordini impartiti da altri: Lisa segue il destino che le crea lo sport mentre Charles quello che ha stabilito per lui il padre George. I due protagonisti sembrano avere una personalità assopita, addormentata: di fronte alle decisioni che sono chiamati a prendere da soli si bloccano, non riescono a far luce sui pro e sui contro. Fino a quando un evento esterno interrompe la routine: la nascita del bambino di Annie, la segretaria di Charles.
 


Immersi in una sala d’ospedale, Annie riceve la dichiarazione d’amore e la proposta di matrimonio da parte del padre del bambino, Al. È un discorso pieno di concetti inerenti al senso di responsabilità, di impotenza di fronte alla perdita del lavoro, di sentimenti puri repressi per via di paure e timori. Ogni singola parola viene immagazzinata da Lisa e Charles e rielaborata. Da quel momento troveranno le soluzioni sul cosa fare, nessuno aveva finora avvertito i due sul come saper comportarsi di fronte alla schiettezza della vita. Entrambi erano troppo presi a rispondere ad esigenze esterne da non capire quali erano le loro personali prerogative. Il mondo esterno, diviso tra carriere in frantumi e relazioni superficiali, in cui il valore economico di un orologio vale più del valore affettivo e metaforico di una scatola di plastilina, aveva proibito loro di conoscere le ragioni dei loro perché, li aveva lasciati in una condizione di sospensione in cui erano incapaci di trovare un aiuto, una soluzione. Tutto ciò che può bastare a chiunque, un aiuto generale, diviene inutile se non si è capaci di capire cosa si vuole realmente e di chiederlo apertamente.
 


Lisa e Charles erano abituati a non essere ascoltati e avevano finito con il non ascoltare loro stessi. Per lei un fidanzato, il cui massimo gesto di comunicazione è dire di aver fatto una pazzia sconclusionata per lei (“Ho rotto una lampada” per la disperazione) e/o la promessa di avere meno rapporti occasionali in futuro, troppo preso dalla sua carriera sportiva e dal suo fascino da seduttore. Per lui un padre incapace di crescerlo e di porlo di fronte alle difficoltà, il cui massimo gesto di comunicazione è urlare per farsi ascoltare e/o autogiustificarsi per non aver saputo essere un buon genitore. Innamorati e familiari eppure estranei, distanti.
 


La scelta del montaggio parallelo aiuta a focalizzare i momenti di silenzio e di non conversazione: si sente ma non si ascolta. È come se Lisa e George parlassero a vuoto con chi li circonda. La retorica di Charles è simbolica delle parole vuote, dei sensi e dei significati alienati e alienanti, dei fonemi sterili. Se in “Spanglish” si parlavano lingue diverse e si finiva col capirsi, qui si parla la stessa lingua e non ci si intende.
 


E il film rifiuta ogni orpello tecnico, niente effetti speciali o visioni ellittiche ed elitarie, si basa su interpretazioni di ferro che restano impresse proprio per la semplicità e l’evoluzione del sorriso. Dalla faccia della Witherspoon (Lisa) ai capelli spettinati di Paul Rudd (George), da un Owen Wilson (Matty) sopra le righe e devastante nella sua “bimbominchiaggine” alle nevrosi di Kathryn Hahn (Annie), segretaria divisa tra il diktat del silenzio imposto dalla società alla lealtà nei confronti di George. Sopra tutto e sopra tutti, lui, Jack Nicholson (Charles), straordinario burattinaio a cui non si nega un sorriso pietoso sul finale.
 


Come nel drink preparato da George (non sorprende che da ubriachi sia Lisa sia George riescano a parlare di loro), il regista mescola gli ingredienti e ubriaca lo spettatore, parte dal triangolo amoroso e arriva alla società del silenzio. Non a caso cita e omaggia apertamente “Kramer contro Kramer” e “Bambi”, due film che vivono di dialoghi su sentimenti e affetti. Agli amici perplessi resteranno le battute fulminanti e le gag, ai detrattori un “gesto col dito” per essersi fermati in superficie e aver scambiato un profondo dramma dei nostri tempi in soffice commedia rosa.

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