Regia di Kevin Munroe vedi scheda film
Non siamo a Londra, e passi. New Orleans è comunque una location suggestiva carica di misteri. Non c’è Groucho per problemi di diritti, e al suo posto è stato scelto uno zombi idiota. Non c’è il maggiolino bianco, visto che i diritti dei maggiolini bianchi al cinema li detiene la Disney ( non è uno scherzo) i cui avvocati spaventano molto di più dei mostri dell’Indagatore dell’Incubo. Ci sono licantropi e vampiri, zombi e demoni buttati lì l’uno sull’altro in una storia di intrighi e tradimenti che richiamano le vicende dei mafiosi di Coppola e Scorsese. Gabriel, il capo dei licantropi – Peter Stormare - scimmiotta il Marlon Brando de Il Padrino. Ma quando a Dylan viene chiesto “tu sai chi è Sclavi?” viene voglia di prendere il cappotto e filare via dal cinema, col bavero alzato sul volto a coprire la vergogna come negli anni gloriosi del cinema porno quanto si entrava a spettacolo iniziato e si usciva prima della fine, tanto la fine era nota. Una brutta fine questo Dylan Dog. Il film ha la bruttezza anestetizzata di un telefilm per massaie di metà pomeriggio. Non è un caso che la Bonelli Editrice dopo aver ceduto i diritti del fumetto si sia dissociata dalla realizzazione della pellicola una volta intuite le modifiche al personaggio operate in sede di sceneggiatura. Purtroppo il cinema americano del fantastico sta attraversando un periodo di cieca sterilità creativa misto ad un autocastrante senso del politicamente corretto che porta a banalizzare in modo sistematico qualsiasi progetto. Non a caso è rarissima la produzione di soggetti originali da parte dell’industria del cinema, preferendo puntare su sequel, prequel, remake o trasposizioni da fumetto che avrebbero il vantaggio non indifferente di fornire uno story board naturale dal quale attingere umori, stile e personalità dei personaggi. Nulla da fare. Nel caso di Dylan Dog lo stravolgimento è totale. Il punto di contatto con l’originale sono i vestiti. Tutto il resto è un’accozzaglia di banalità assortite male proposte nell’estetica ritrita dell’action movie . Non si dovrebbe mai confrontare un film con la fonte letteraria di origine, ma il fumetto Dylan Dog che da sempre è intriso di cinema, per tutte le suggestioni che ha (ri)trattato con grande intelligenza mutuandole dai titoli che hanno fatto la storia del genere, meritava sicuramente una trasposizione migliore, se non altro come forma di rispetto.
Il regista Kevin Munroe trasforma le brume londinesi in una iperrealistica New Orleans dalle colorazioni espressioniste nella quale si muove come un Big Jim ipertrofico e legnoso l’ex Superman Brandon Routh che evidentemente crede di essere ancora nel set precedente. Totalmente privo di carisma, attraversa l’avventura con la strafottenza snob di chi le ha già viste tutte ed è lì solo per farti un piacere. Molto lontano dallo scettico stupore dell’originale cartaceo, fallace e disilluso quanto introspettivo e dotato di un’etica ormai smarrita nel mondo che è costretto ad abitare, il Dylan americano prende cazzottoni da zombi di tre metri, vola e sbatte, rimbalza, picchia come un ossesso come in un cartoon di Tex Avery. Uccide senza sangue, fotte una sciacquetta inespressiva – la pessima Anita Briem - , scambia tremende battute con il compagno d’avventura che dovrebbe sostituire Groucho: un insopportabile zombi ciarliero che supera per idiozia il Jar Jar Binks di Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma. Non c’è uno straccio di idea, di tensione, di pathos. L’impossibile del cinema fantastico diventa l’insostenibile della sciatteria di un prodotto precotto e confezionato per preadolescenti semisenzienti quali sono gli spettatori target di questo film. La storia è quella della lotta tra vampiri e licantropi (ma va?) per il possesso di un manufatto che dovrebbe far risorgere un demone (ma pensa te) così potente da dominare il mondo (yawn…). Gli zombi sono tra noi (l’aveva già detto Romero), vanno alle riunioni di mutuo aiuto e hanno un posto dove possono ricambiarsi i pezzi di carne putrefatti (ah, la satira sociale). La sterilità del soggetto è conclamata, tra voragini di sceneggiatura riempiti con dialoghi del teatro dell’assurdo, dopo momenti di action stantio, si giunge finalmente allo sbrigativo finale stravolti di noia mista a rabbia. La presa per il culo (perché è di questo, senza tanti giri di parole che si tratta) è ricamata con un montaggio che ripesca le vecchie tendine o dissolvenza a iride dei vecchi film anni 40, cercando di recuperare una raffazzonata atmosfera noir e che dovrebbero dare la sensazione delle pagine del fumetto che vengono sfogliate, quando è palese che questi testosteronici americani il fumetto non l’hanno mai letto e se l’hanno fatto non l’hanno capito proprio. Ritorna in mente il più coerente e affasciante Dellamorte Dellamore (1994) di Michele Soavi , un oggetto stranissimo nel panorama cinematografico italiano che senza clamore diede vita a Dylan Dog pur non avendone i diritti. Film che per l’occasione è stato rieditato in DVD ricco di Extra. Recuperate questo.
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