Regia di Sam Mendes vedi scheda film
American life è una pellicola dai soffusi toni romantico/sentimentali, che seguendo una certa essenzialità narrativa, racconta la storia di due persone che “si appartengono” e che scoprono (a loro spese) quanto la solitudine, la leggerezza e la superficialità altrui possono arrivare a opprimerli.
Dopo American Beauty e Revolutionary Road, Sam Mendes prosegue così a tratteggiare il suo ritratto della famiglia combinato con l’osservazione un pò disincantata e molto caustica, della provincia americana, una vera e propria esplorazione più agra che dolce, della giovane America ai tempi di Obama (siamo impediti, confusi, immaturi – dice uno dei due protagonisti – insomma, siamo Americani).
Per raccontare questo episodio contemporaneo della vita di coppia (due trentenni o poco più che vivono da un po’ di tempo una relazione sentimentale ma non hanno ancora preso alcuna decisione “importante” per quel che riguarda il loro futuro, non si sposano perché non trovano motivazioni sufficienti e adeguate per compiere quel passo, stanno da qualche parte in Colorado ma senza alcun vincolo di sorta l’uno verso l’altra e viceversa al di là del sesso, abitano insieme un po’ confusi e senza obiettivi certi tra pareti malridotte e senza riscaldamento, con il cartone al posto dei vetri alle finestre a testimoniare la loro “provvisorietà”, lavoricchiando saltuariamente a domicilio, lei disegnando organi in sofferenza per una rivista medica, lui vendendo al telefono polizze assicurative), Mendes prende l’avvio proprio da un da un disordinato cumulo di rovine (o per meglio dire, di “macerie”): le significative inquadrature d’apertura, che ci mostrano il caotico squallore di una abitazione un po’ fatiscente, dentro e intorno alla quale si sono accumulati affastellandosi fra loro, oggetti di ogni tipo e provenienza, residui di un mondo che sembra essere stato sconvolto da un furioso uragano (Daniela Zanolin).
Una storia dunque apparentemente banale quella messa in scena dal regista, che però nella sua paradigmaticità, fornisce anche l’occasione e lo spunto per una riflessione approfondita e un po’ disincantata su cosa significa davvero “costruire una famiglia” nella precarietà sempre più invadente e poco condizionabile che assedia (nella stretta morsa di una sotterranea recessione in pectore) l’America contemporanea (e non solo) alle prese con i suoi scheletri nell’armadio e che deve per altro fare i conti anche con incomprensibili rigurgiti moralisticheggianti, se si pensa che la pur esplicita scena – ma sostanzialmente casta - del “cunnilingus” iniziale sotto le coperte, ha determinato inesorabilmente la classificazione “R” della pellicola, un “bollino” rosso (in questo caso veramente ridicolo) che inibisce l’accesso in sala per visionarla, agli americani minori di 17 anni se non esplicitamente accompagnati dai propri genitori (!?!).
A parte questa annotazione di costume comunque singolare, mi sembra, visto che siamo ormai da più di un decennio nel terzo millennio e che le menti dovrebbero essere almeno un po’ più aperte, si può ben dire che American life (o meglio Away we go, come è più giustamente titolata in originale la pellicola) nella sua descrizione degli equilibri e delle dinamiche interne alla coppia, è un film praticamente incentrato oltre che sui bisogni primari e di cambiamento che esprime, sulla mancanza di certezze e sulla ricerca leggermente angosciata e spasmodica, ma a tratti persino divertente, di un luogo “ideale”, se non perfetto per lo meno accettabile e “sicuro”, dove potere crescere rasserenati e in qualche modo protetti, la propria prole.
L’agente scatenante che fa emergere il problema così sentito dai due giovani presi ad esempio e riferimento di questa situazione (ottime le prove degli attori che li interpretano, John Krasinsky e Maya Rudolph), è proprio una inattesa gravidanza, un fatto così imprevisto da non essere stato nemmeno messo in conto, che per le inevitabili conseguenze di mutamento che impone, si configura proprio come la cartina di tornasole che fa uscire allo scoperto le titubanze e i dubbi sulla capacità di riuscire a “sostenere” e reggere da soli l’impatto dell’evento a causa dell’inadeguatezza strutturale (ma anche psicologica) sociale e privata che avvertono.
Il film mette cosi in scena le peregrinazioni di questi un po’ sprovveduti (per lo meno in partenza) futuri genitori che si muovono da un punto all’altro degli Stati Uniti per riuscire a individuare il luogo giusto dove poter mettere finalmente le radici per la nuova famiglia in espansione. Un viaggio non tanto nei luoghi, quanto piuttosto alla volta delle persone che compongono le loro famiglie e amicizie un po’ sfasciate e confuse, almeno quanto loro, se non addirittura di più, che porterà la coppia a scontrarsi con molte inaspettate delusioni.
Una storia dunque on the road abbastanza brillante, spesso perfidamente ironica e con molti momenti esilaranti, che è un vero e proprio invito a riflettere sul nostro presente e su cosa e come siamo diventati, ma anche una intelligente analisi, criticamente paradossale nella sua implacabile dissacrazione di molti luoghi comuni, sui comportamenti e i rapporti, che mette in luce stigmatizzandole, le nevrosi e le ipocrisie che circondano e ottundono i protagonisti, alle prese con modelli di pensiero e stili di vita molto differenti dai loro, se non inesorabilmente opposti, attraverso i quali la coppia esplora e mette a confronto le diverse, possibili declinazioni del vivere il rapporto genitori-figli.
E’ una gustosa, infinita galleria di personaggi spesso un po’ al limite quella che ci viene sciorinata nel corso del costruttivo pellegrinaggio della coppia, che pone soprattutto in evidenza i limiti e le distorsioni della gente, partendo proprio dai congiunti più prossimi: l’egoismo dei genitori di Burt che non rispondono all’accorato appello, ed “egoisticamente” preferiscono confermare la loro scelta di voler trasmigrare in Europa pur di non essere coinvolti; l’ex collega di Veronica con marito nichilista al seguito che disprezza i figli sproloquiando senza sosta sulla loro inconsistenza senza nemmeno accorgersi di essere a sua volta odiata e rifiutata da quella prole che non la sopporta proprio; la sorella ancora single di Veronica orfana e senza figli che vive nel rimpianto del rapporto con la madre ormai defunta da un po’ di tempo e non sa trovare altre adeguate compensazione al suo disagio; la cugina di Burt e il suo compagno, entrambi persi fra teorie new age e l’illusione un po’ demenziale di una fusione olistica con i propri figli; i vecchi compagni del college circondati da una rumorosa e variegata figliolanza multietnica, ma minati dall’infelicità per non aver potuto generare in proprio, ed essere così genitori “solo” di riflesso; il fratello di Burt annichilito per il recente abbandono della moglie e preoccupato per il futuro di una figlia che dovrà crescere da solo… Tutte figure emblematiche come si può ben vedere, insomma, che popolano monotematicamente e senza molte variazioni, una serie di scene in movimento ambientate nelle località più disparate sparse fra i tanti Stati dell’Unione, ma alla fine così poco dinamiche e differenziate nello svolgimento, così piene di stereotipi abbastanza prevedibili, che in teoria potevano benissimo essere svolte e sviluppate tutte in una sola stanza, senza bisogno di tanti spostamenti.
C’è comunque – e fortunatamente – molta ironia nella rivisitazione del regista, come ho già detto, un’ironia per altro elevata al quadrato proprio dall’ironia espressa dallo sguardo della coppia protagonista che fa da filtro, e che colora di grottesco mostruoso una realtà già amara di suo, per instabilità e disgregazione.
La ricerca da parte di Burt e Veronica della “terra promessa” dove poter piantare nuove radici, se fisicamente si sviluppa dentro un perimetro d’azione molto ampio e vasto (sono molti i chilometri che percorrono nei loro spostamenti) ha forse però e paradossalmente, più i connotati di un viaggio dentro a se stessi (e in questo senso, letto in tale prospettiva, l’approdo finale di un peregrinare soprattutto all’interno del proprio cuore, non può essere davvero che un “ritorno”, quello di Veronica che si riapproccia senza più false barriere al ricordo dei genitori defunti, e che la riporta a “valutare” ed apprezzare proprio quelle stanze, quella casa avita, il cui accesso le era stato a lungo precluso da un dolore cocente non ancora riassorbito, una casa della memoria ben conosciuta (e per questo in qualche modo “amica”) da rimettere semplicemente in piedi e da “ricostruire”, ma zeppa di ricordi e della dimensione privata degli affetti, quella “speciale”identità di origine che rischiava di smarrirsi per sempre.
E alla fine è proprio la complicità dei due protagonisti a toccare e coinvolgere fortemente lo spettatore, la maniera in cui i due restano sempre uniti, anche dinanzi a una serie di circostanze incredibili e persino un po’ irritanti, l’originalità ruspante della loro ingenuità e dedizione, il tutto amplificato e reso ancora più credibile, da una serie di indovinate ambientazioni spesso rurali, che rappresentano l’ideale, classica cornice dentro la quale il cinema americano indipendente riesce a trovare spesso le sue pulsioni più genuine e l’ispirazione alata della poesia anche in termini di contenuti e di incisività.
Il finale poi è commovente e significativo quando, disillusi da tanti fallimenti, i due approdano alla casa dei genitori di lei che in fondo era a loro disposizione fino dall’inizio e decidono di restare: è lontana da tutte le altre, ma è la loro, e quella casa materna che li accoglie, rappresenta anche la consapevolezza finalmente acquisita, il consolidamento e la “rifondazione” della loro nuova famiglia. Una casa che si affaccia su un paesaggio vagamente astratto ed esotico così persa nella “solitudine” che al positivo sopra evidenziato sembra voler affiancare anche un’ipotesi di regressione, con quell’allontanamento dalla società che può essere letto come un rifiuto o una rassegnazione. Conclusione fragile e aperta allora, come si conviene a un film altrettanto “fragile” come questo, un cinema un po’ “minimale” ma importante e significativo, con il quale il regista raggiunge di nuovo un positivo risultato, appassionante e cristallino, molto lontano, quasi opposto anche nelle soluzioni conclusive, dall’eco spietata e dolorosa del precedente Revolutionary Road ma non per questo meno problematico e “sentito”.
Forse dal mio personale punto di vista, le quattro stelle che ho assegnato sono eccessive, ma darne solo tre mi sembrava troppo poco: il voto giusto sarebbe quindi a mio avviso ***½.
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