Regia di Lucio Pellegrini vedi scheda film
Un sequestro politico diventa commedia. La storia è amara, per l’ordinaria tragicità dell’evento da cui trae la motivazione: un infortunio risultato fatale ad un operaio di Porto Marghera. Ed è velata dalla malinconia anche nella sua successiva evoluzione, per quella nota nostalgica che fa ripensare a certe illusioni rivoluzionarie degli anni settanta, quando, agli occhi di molti, lottare sembrava giusto e possibile, benché i mezzi fossero spesso cruenti ed incivili. Il crimine commesso dai protagonisti – il rapimento di un sottosegretario – si tinge di innocenza proprio in virtù di quell’anacronismo che veste il loro sogno di riscatto di un’infantile patina di ingenuità. Quattro poveri diavoli decidono di organizzare un colpo in risposta alla morte del collega di uno di loro, ma sbagliano obiettivo, e così nelle loro mani finisce, al posto del ministro del lavoro, un anonimo funzionario che si trovava lì per caso. Nonostante il madornale errore commesso, l’improvvisata banda deciderà di portare avanti l’operazione, riuscendo anche a conferirle un significato credibile. Da quel pasticcio usciranno tutti con le ossa rotte, però forti della soddisfazione di aver comunque reagito alla sfortuna, tentando di fare qualcosa. L’indulgenza con cui viene trattato un argomento tanto delicato – e che può risultare discutibile alla luce di tanti funesti episodi degli anni di piombo – è un accento espressivo che spiana la strada alla riflessione sul senso di impotenza che affligge la gente comune di fronte alle ingiustizie. In un mondo ormai orfano delle ideologie, rifarsi alla storia recente senza veramente capirla è un espediente banalmente riconducibile all’arte di arrangiarsi: un’emulazione certo carica di rancore, però altrettanto priva di malizia e di cinismo. I moderni eroi della rivincita sociale sono figli delle stelle cadute dal cielo delle grandi utopie e finite ad ornare il mediocre feticcio del sensazionalismo mediatico, secondo il quale il clamore è la forza che crea l’unione del popolo e fa scattare la solidarietà. La visione che i protagonisti hanno di sé e del proprio agire è chiaramente sproporzionata, ma si traduce in un’autentica passione per la causa e nella ferrea determinazione ad andare fino in fondo. Quel progetto è il loro mito personale, che coltivano in maniera sofferta e raffazzonata, come abbondantemente sottolineato da una sceneggiatura vivace, anche se non sempre del tutto scorrevole. Gli occasionali inciampi e stonature contribuiscono, però, a loro volta, ad alimentare l’atmosfera di incertezza che naturalmente accompagna chi deve fare i conti con un’impresa che, per quanto da lui concepita, in realtà non gli appartiene, perché estranea alla sua vocazione e al di sopra delle sue effettive capacità. L’accostamento con La lingua del santo giunge spontaneo, benché il film di Lucio Pellegrini non possieda la stessa popolaresca magia del capolavoro di Carlo Mazzacurati, e rimanga confinato nel registro della demagogia spicciola, buona solo ad innescare rivolte casalinghe e viziate da un pizzico di opportunistica vigliaccheria. Alla poesia di quell’incantevole provincialismo dell’abbandono fa qui eco una cabarettistica spruzzata di colore dialettale, che ben si amalgama con la verve caricaturale di Pierfrancesco Favino, pur producendo una comicità senza spessore. La gustosa gradevolezza dell’opera è, in buona parte, merito degli interpreti, dal timido Fabio Volo al solidissimo Giuseppe Battiston; dalla sua ha però anche un copione che, per quanto imperfetto e poco originale, non molla mai la presa, ed è coerente soprattutto nella volontà di avvolgere la vena polemica nella soffice coperta del sorriso.
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