Regia di Claudio Cupellini vedi scheda film
Un bel thriller di camorra. Pirandelliano, istruttivo, sull’insostenibilità della scelta di vivere da delinquente. Che non permette reali passi indietro, per uscirne in modo definitivo.
Ma nemmeno permette una vita felice, di qualche tipo: permette solo una vita disperata, come quella che il protagonista deve fare, egregiamente interpretato da Servillo. Il cui personaggio fa di tutto, pur di evitare la realtà. Con le conseguenze del giusto odio di chi ha coinvolto, nelle sue terribili menzogne: un classico della vita del delinquente, reso necessario della sua arroganza, cui non può fare a meno. La sua vita non deve prevedere responsabilità: è individualismo allo stato puro. Nella speranza che un domani nessuno si accorga di tale sua scorrettezza, con cui ha fatto del male, anche enorme, ad altri.
Il soggetto, scritto benissimo da Gravino, mette in debita luce, tra le tante cose (tra cui l’implacabilità del potere criminale) la rabbia repressa, fino a un certo punto, del figlio verso un padre assente e irresponsabile.
Il contesto è raffreddato, e in modo del tutto verosimile, dalla patina tedesca: sia per le freddezza del clima, sia per la sordina posta sull’effervescenza partenopea.
Ottime la colonna sonora di Theo Teardo, la fotografia di Poharnok, ma soprattutto la recitazione, e di tutti. Tra questi spiccano, oltre a Servillo, un eccellente Di Leva e pure D’Amore, nella resa introversa della sua legittima rabbia filiale.
Ottime anche le attrici, compresa la bellissima Alice Dwyer, all’interno di un insieme in cui tutto è sviluppato e composto bene, e lascia spazio al crescendo del tremendo finale: ciò poi avviene in sordina, aggiungendo merito. A un’opera tragica, validissima sul piano tanto storico quanto psicologico.
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