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Malavoglia

Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film

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La recensione su Malavoglia

di OGM
8 stelle

Chi sono i Vinti. Quelli che nascono sfortunati, e vivendo vedono aumentare la loro sfortuna. Sono i poveri per i quali, lungi da ogni poesia bohémienne, la povertà è solo fonte di disgrazia, di discordia, di perdita degli affetti. C’è chi muore, chi impazzisce, chi si ammala, chi parte, chi si perde. E intanto la poca roba se ne va per sempre. La sventura che si moltiplica è un concetto elementare, vecchio quanto l’uomo, che è vano tentare di attualizzare nella sostanza. Si può tutt’al più cambiare un po’ la forma, adattando lo scenario all’epoca corrente, senza toccare l’essenza di un male che è sempre uguale a se stesso, per il semplice fatto che, di per sé, non ammette rimedio. È questa l’idea di base di un film sobrio e piangente, adagiato sul fondo gelido dell’esistenza priva di speranza. La Sicilia torna ad essere un remoto lembo d’Italia, una terra di frontiera, affacciata su un mare generoso oppure avaro, ospitale oppure ostile, a seconda dei mutevoli umori del cielo. Non c’è nulla da fare, ed è inutile affannarsi, perché è il fato che decide della vita degli ultimi, di quelli che non chiedono nulla, e vengono continuamente derubati. L’unico bene di cui non possono essere rapinati è un patrimonio di antichi valori e giovani sogni, che lo ‘Ntoni dei giorni nostri trasformerà in una ballata rap formata dai proverbi dei pescatori: un tesoro sospeso tra passato e presente che, non a caso, finirà per rivelarsi come l’unico possibile traghetto verso la salvezza. Il tesoro di un universo chiuso nell’ostinata mancanza della provvidenza verrà così consegnato ad un domani che sa come dimenticare il dolore radicato nella terra d’origine ed inventarsi nuove gioie senza confini. Il risveglio è preceduto da un lungo, atavico dormiveglia nella consueta tristezza della miseria, nel disagio che si converte in declino: la storia appare stanca della propria atemporalità, logora a causa della sua amara prevedibilità, ed è questo a ricoprirla di una patina opacamente anacronistica, come di un racconto ascoltato troppe volte e mai gradito. Il lamento si ripete, ma non si rinnova, perché  riformarlo significherebbe violare la sacra veracità della tragedia popolare, delle morti che segnano la fine e l’inizio di tutto, il punto del ciclo vitale in cui bisogna soffrire enormemente per trovare la forza di tirare avanti. Il peschereccio si rompe, e dunque bisogna rimboccarsi le maniche ed accelerare il ritmo di lavoro, per poter mettere presto insieme i soldi necessari a ripararlo. Il padre muore, e questo è un motivo per darsi da fare ed essere ancora più uniti. La barca, una volta tornata in mare, affonderà, e la famiglia, privata della casa, rischierà di disperdersi ai quattro venti. La ruota continua a girare nella stessa direzione, fintanto che si sceglie di rimanere attaccati ad un destino collettivo tramandato di generazione in generazione. Spezzare la catena della rassegnazione e cambiare strada è la ricetta per valorizzare e mettere a frutto la parte sana di quella immutabile eredità: basta aggiungere un singolo ingrediente per far rifiorire la pianta malata.  I Malavoglia degli anni duemila cercano di dare, all’ancestrale domanda sul segreto della felicità, una risposta equilibrata, a cui concorrono in pari misura il rispetto della tradizione e l’interesse per il progresso. Nessuno tradisce la propria natura. Ma tutti sono disposti a rivederla in chiave moderna.

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