Regia di David Michôd vedi scheda film
“Cazzo che mondo di merda”. Finisce con queste parole “Animal Kingdom”, il film sulla malavita di Melbourne diretto e scritto da David Michod. Josha “J” Cody (James Frecheville) è il protagonista che, dopo la morte per overdose della madre, va a vivere a casa della nonna Smurf (Jacki Weaver) e degli zii Pope, Craig e Darren, tutti criminali coinvolti nel traffico di droga. Dall’inizio sentiamo la voce del ragazzo raccontarci le sue prime impressioni sul nuovo mondo (criminale) dove si trova catapultato dal giorno alla notte. Poche sono le parole d’ordine per sopravvivere in questo “Animal Kingdom” (regno animale): al primo posto ci sono la violenza e la necessità costante di nascondersi per sfuggire alla caccia degli sbirri. Nel sottobosco criminale di Melbourne nessuno è un santo, polizia inclusa, con la legge a recitare il ruolo di un burattino ormai immobile e senza più comandi. Pian piano “J” diventa parte integrante della Famiglia, complice suo malgrado delle peggiori azioni di Pope & Co, ma lui sa che i criminali finiscono sempre male in un modo o nell’altro. Ben presto quello che resta della Legge, nelle vesti del detective Nathan Leckie (Guy Pearce), inizierà a tallonare anche il giovane protagonista il quale dovrà decidere da quale parte stare. “Animal Kingdom” è un film dal passo lento, in quasi due ore sembra che non succeda apparentemente nulla al di là degli omicidi che colpiscono sia la famiglia criminale che la polizia in una serie di vendette incrociate, sullo sfondo della canzone “All out of Love” in perfetta sintonia con lo stato di perdizione dei personaggi coinvolti. Quasi tutto è funzionale - a parte qualche farraginosità nel finale - alla crescita costante di una rabbia che solo al termine esploderà nel più inaspettato dei modi, lasciando lo spettatore in balia di una violenza al tempo stesso inspiegabile e necessaria.
Primo lungometraggio del regista e sceneggiatore australiano David Michôd, Animal Kingdom è una tragedia famigliare camuffata da Melbourne crime story. Sarebbe riduttivo e ingeneroso considerarlo un semplice racconto di formazione, ché il film di Michôd, come suggerisce il titolo, descrive habitat e forma mentis di una famiglia parimenti intrisa di logiche criminali e legami affettivi. In modo non troppo dissimile dal Clan dei Barker di cormaniana memoria, i Cody sono letteralmente tenuti uniti dalla madre Janice Smurf, cuore e collante del focolare domestico. A minacciare l'integrità del nucleo familiare sono soprattutto i tempi che cambiano: squadre di polizia che operano come squadroni della morte e attività criminali tradizionali sempre più complicate. Se l'unico membro esogeno della banda, Barry Baz Brown (Joel Edgerton), convoglia parte dei profitti malavitosi nella speculazione finanziaria, lo spacciatore Craig (Sullivan Stapleton) e soprattutto l'ex rapinatore Andrew Pope (Ben Medelsohn) non sono in grado di adattarsi alla trasformazione in atto.
Catapultato dagli eventi nel regno animale dei Cody, Josh (l'esordiente James Frecheville) funziona da catalizzatore del processo di disgregazione: apparentemente debole tra gli altrettanto apparentemente forti, J osserva apatico le dinamiche familiari e si limita a ritagliarsi uno spazio vitale, portando con sé la fidanzata Nicole (Laura Wheelwright, un'altra debuttante) e non opponendosi alle regole di comportamento della banda. Il suo spaesamento è occultato, trattenuto, interiorizzato: si indovina nelle occhiate, nelle repliche smozzicate, nei gesti impacciati e silenziosamente riottosi. La sua fisicità ridotta al minimo stride con l'esuberanza di Craig, con l'espansività di Smurf e con la bellicosità di Pope: un elemento estraneo che con la sua sola presenza altera irrimediabilmente l'equilibrio ambientale. Benché mite e invisibile, Josh rimugina su quanto vede ed elabora una strategia di sopravvivenza fatta di reticenza e resistenza, fino a sfidare il capobranco Pope e tenere testa al detective Leckie (Guy Pearce), poliziotto scafato e scaltramente manipolatorio.
Scritta dallo stesso Michôd, la sceneggiatura rifugge dagli psicologismi e dai didascalismi, giocando su impliciti, ellissi e focalizzazioni: i personaggi principali passano improvvisamente dallo sfondo al primo piano, dando vita a una narrazione corale ricca di sfaccettature e tonalità drammatiche (zero ammiccamenti ironici: vivaddio una crime story che si prende sul serio). Guidato dalla voce narrante di Josh, Animal Kingdom fa quasi totalmente a meno dello scenario urbano, dispiegandosi prevalentemente in spazi chiusi (la casa dei Cody, quella di Nicole, la stanza degli interrogatori, il parlatorio della prigione) e lasciando che Melbourne baleni tra un interno e l'altro. Improntata a un freddo realismo, la messa in scena di Michôd soffoca le esplosioni di violenza ed esalta la sensazione di pericolo opprimente che incombe sui protagonisti, concentrandosi sui loro volti e distillando primi piani senza eccedere in soggettive enfatiche. Luci naturali e misurati movimenti di steadicam, il film di Michôd rappresenta, secondo chi scrive, il controtipo negativo dell?apprezzabile The Town: se la pellicola di Ben Affleck proietta il quartiere criminogeno di Charleston (Boston) sui personaggi, Animal Kingdom introietta la Melbourne malavitosa nell'ethos familiare di un universo domestico in bilico tra misoginia e matriarcato. In molti hanno scomodato Martin Scorsese o Michael Mann per l'uso del ralenti, eppure non c?è bisogno di uscire dall'Oceania per cogliere il riferimento più stringente: il cinema ferocemente (e felicemente) paranoide di Andrew Dominik. Vincitore del Gran Premio della Giuria, categoria World Cinema Dramatic, al Sundance Film festival.
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