Regia di David Michôd vedi scheda film
Melbourne, 11 ottobre 1988: Graeme Jensen, ricercato per concorso in omicidio, finisce ucciso mentre fugge dalla polizia. Il giorno dopo, alle quattro e trenta del mattino in Walsh Street, gli agenti Damian Eyre e Steve Tynan, rispettivamente di 20 e 22 anni, sono freddati mentre perquisiscono un’auto abbandonata in mezzo alla strada. L’indagine, durata ben 895 giorni, porta in tribunale la Flemington Crew, una banda di rapinatori di banche capeggiata dalla famiglia Cody, che avrebbe colpito la polizia per rappresaglia in seguito all’ammazzamento di Jensen. Da questi fatti di cronaca, di cui non sveliamo l’esito, David Michôd – anche sceneggiatore - esordisce nel lungometraggio con una messa in scena dalle idee chiare e già matura (sebbene Scorsese, evocato dagli strilli della locandina, c’entri davvero poco). Il racconto predilige la prospettiva di Joshua, il più giovane membro della famiglia Cody, che in seguito alla morte per overdose della madre si ritrova in mezzo agli zii criminali, un vero branco di lupi. Michôd racconta situazioni ferine da legge della giungla (da cui il titolo) e segue i fatti di cronaca trasfigurando il realismo con commenti musicali molto caricati, che ingenerano un senso di incombenza negli eventi. Ne risulta un clima opprimente e sinistro, soprattutto quando sono in scena la matriarca del clan Janine, tutta gentilezze ma dall’inquietenante scintilla negli occhi, e il sociopatico Andrew, maschio alfa interpretato da un magnetico Ben Mendelsohn. Il regista dimostra poi una buona mano sia nella messa in scena della violenza, che non estetizza pur senza nasconderne la brutalità, sia nello sciogliere gli intrecci della trama con calibrate ellissi. La cosa che più impressiona di Michôd è però il trasporto, privo di didascalismi, con cui racconta i personaggi, lasciando al gioco degli attori la stoccata incisiva e isolandoli in picchi emotivi forse convenzionali ma certo potenti. Un bel ritorno per il sottovalutato cinema australiano.
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