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Into Paradiso

Regia di Paola Randi vedi scheda film

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La recensione su Into Paradiso

di Spaggy
8 stelle

Napoli. Alfonso, biologo precario che studia la comunicazione tra le cellule in un laboratorio, a causa della crisi economica che imperversa viene licenziato. Su consiglio di un amico, si rivolge a una vecchia conoscenza d’infanzia, Vincenzo Cacace, piccolo imprenditore locale candidato a sindaco. Cacace, dopo l’esitazione del primo incontro, in cambio di una raccomandazione al Rettore dell’Università propone ad Alfonso di portare a termine una missione per suo conto: consegnare un piccolo “cadeau” per conto di amici suoi.
Al momento della consegna, i destinatari vengono assassinati per strada e i killer in motocicletta inseguono Alfonso. L’uomo trova riparo in un “caseruoppolo” sul tetto di un fondaco nella zona del Cavone abitato da una comunità srilankese insediatasi in città. Raggiunto da Vincenzo e dopo aver scoperto che il pacco regalo conteneva una pistola appartenente al boss della camorra, don Fefè Arisa, Alfonso decide di nascondersi e di non lasciar andare l’amico politico, trattenendolo quasi in ostaggio.
Il caseruoppolo in cui i due si trovano è la residenza provvisoria di Gayan, giovane srilankese ex campione del mondo di cricket, appena giunto in Italia per sostituire il cugino sul posto di lavoro. Anche Gayan viene “sequestrato” da Alfonso ma tra i due si instaura una forte complicità tanto da divenire amici in poco tempo grazie allo scambio multiculturale tra i due e all’aiuto vicendevole.
La vita nel fondaco da l’occasione ad Alfonso di conoscere Giacinta, cugina di Gayan, con cui a poco a poco nasce un tenero rapporto.
Ovviamente don Fefè non ha alcuna intenzione di perdere la sua preziosa pistola e individuato il fondaco in cui crede si nascondano Alfonso e Vincenzo da l’ordine perentorio ai suoi scagnozzi di eliminare i due uomini. Come farà Alfonso a salvarsi?
 
L’esordio cinematografico della videomaker Paola Randi è da apprezzare come una folata di vento fresco che arriva in un assolato pomeriggio d’agosto portando con sè l’ebbrezza del ristoro e spazzando via l’atarassia di un’estate fin troppo soffocante. La commedia italiana (o forse sarebbe meglio definirla “made in Italy” per evitare il rischio di confonderla con la “commedia all’italiana”) degli ultimi tempi sembra aver trovato la sua giusta dimensione negli incassi del botteghino ricorrendo a volti e personaggi dell’universo televisivo che, inevitabilmente, al di là delle capacità recitative, possono contare su un pubblico di fedelissimi che ritrova in sala i meccanismi della battuta facile, usa e getta, in cui riconoscersi e per cui ridere anche sguaiatamente. Non è un caso che abbiano trionfato Zalone, Bisio, Aldo Giovanni & Giacomo, Albanese: tutti figli della generazione del “Mai dire…” o dello “Zelig”, che nel bene o nel male hanno formato i gusti comici degli ultimi vent’anni.
 
Paola Randi, trasformando una storia drammatica in commedia, rifugge la battuta semplice e si nasconde dietro sorrisi a denti stretti, talvolta amari e fortemente critici, conditi da sana ironia e presa in giro dei cliché cinematografici. Parlando di camorra e rapporti tra criminalità e potere, riesce a immergere il tutto in un contesto etnico che garantisce originalità alla storia: affronta in primis il tema dell’immigrazione e della coabitazione forzata tra culture diverse dimostrando come i concetti weberiani di “Natura” e “Cultura” possano coincidere senza violenza, generando una storia di formazione in bilico tra commedia sentimentale e favola d’altri tempi, strizzando l’occhio al thriller e alle opere visionarie d’avanguardia.
 
Le esperienze formative della regista si vedono tutte. La sua laurea in Giurisprudenza ad esempio viene sfruttata nelle scene in cui sono in campo esponenti delle forze dell’ordine, della polizia. Sardonico appare il dialogo tra Alfonso e il commissario di polizia durante il primo sogno ad occhi aperti, di matrice teatrale, con una messa in scena e costruzione del set in primo piano (arrivano sedie, scrivanie, lampade e poliziotti a scena aperta, il set diventa metaset): di fronte alla confessione quasi reale del personaggio su come siano andati effettivamente i fatti, il commissario pone in evidenza tutti i reati a cui va incontro. Una semplice raccomandazione si trasforma inevitabilmente in collusione, concussione, tentata strage e associazione mafiosa: il nemico è sempre in agguato anche quando cammina in tasca con delle semplici sfogliatelle, ribaltando la realtà in base al preconcetto, come se l’evidenza dei fatti non bastasse a testimoniare l’accaduto. E non stupisce che una scena analoga si ripeta nel colloquio tra Gayan, il giovane cingalese campione di cricket, e il funzionario di polizia responsabile della Sezione Immigrati: un uomo ottuso, attaccato alla sedia un cui siede e fortemente prevenuto nei confronti del giovane tanto quasi da non ascoltarne le richieste. Non è un caso che la regista lo mostri con fasciature mediche che ricoprono le orecchie, facendo da contraltare ai tappi che usa Alfonso per estraniarsi dal reale: Alfonso è “temporaneamente sordo” per scelta personale, il funzionario lo diventa per scelta del sistema.
 
Ma la Randi non dimentica neanche l’esperienza teatrale e mette in mostra altre due scene quasi brechtiane, volte a far prendere consapevolezza al personaggio di Alfonso e contemporaneamente allo spettatore. Il secondo sogno ad occhi aperti ricostruito ricorrendo a delle proiezioni su dei plastici (scatole di biscotti, soprattutto), giocando sull’allegoria dell’Alfonso regista cinematografico che costringe i suoi attori a più riprese della stessa scena (l’omicidio degli scagnozzi a cui dovrebbe dovuto portare il “cadeau”), conduce il personaggio a riflettere su un elemento che aveva ignorato fino a quel punto: la camorra conosce il suo volto, sa chi è, è lui l’ “infame” a cui si rivolgono gli scagnozzi prima di morire. Attraverso la ricostruzione della scena, Alfonso prende consapevolezza di un gesto che era dapprima passato inosservato: nell’affidargli la missione, Vincenzo Cacace gli aveva scattato una fotografia con il proprio telefono cellulare.
La seconda scena brechtiana riguarda invece il terzo sogno ad occhi aperti che fa sconfinare il teatro brechtiano in una scena da commedia bollywoodiana. Costruita ricorrendo alla tecnica del “frame by frame” e sfociata nella ripresa semplice, la regista ci mette in mostra il desiderio più intimo di Alfonso, il coronamento del proprio amore con Giacinta, la cugina di Gayan, di cui nel frattempo si è innamorato. Poco importa se la immagina vestita in abiti indiani e fa rimarcare la cosa dalla donna in un dialogo da teatro dell’assurdo, la potenza onirica diventa talmente emotiva da non lasciare spazio alle suddivisioni culturali, ogni confine ormai è superato e quel “bacio mai dato” diventa il simbolo di un’integrazione avvenuta senza forzature, dettata dalle “stelle che indicano i passi da seguire”.
 
La sfera tematica del film concentra tutta la sua attenzione sull’integrazione razziale. Nonostante 150 anni di storia dell’unità d’Italia e le divisioni regionali vengano sempre più marcate anche da una classe politica non sempre all’altezza delle cariche che si ricoprono, la Randi costruisce una favola che appare quasi utopica nella facilità con cui si sviluppa (forse qualche elemento in più nella sceneggiatura non avrebbe guastato). Come meltin’ pot d’ambientazione viene scelta Napoli, una città lontana dalle conoscenze dirette della stessa regista e proprio questo le permette di trattare la tematica con l’occhio dell’osservatore partecipante, è lei stessa un’immigrata immersa in una realtà che non conosce e che le permette di rifuggire i soliti luoghi comuni sulla città. La Napoli di “Into Paradiso” non è rappresentata dalla pizza e dai mandolini: è colta attraverso gli occhi di un fondaco srilankese che si trova a fronteggiare il cancro della città, la camorra, gente con cui non ha mai voluto a che fare. Il fondaco è estasi sensoriale: colori, bandiere, usi e costumi, musiche e suoni, immagini televisive, odori e sapori di un’altra terra, terra che i cingalesi provano a ricostruire in miniatura. Una specie di fortino edificato nel cuore dei vicoli partenopei dove, tra i tetti dotati di antenne televisive e le strade strette piene di bambini che giocano a calcio e di “criminali da strapazzo” legati al mito degli Anni Ottanta, la cultura globalizzata fa il suo ingresso attraverso l’uso di prodotti indigeni divenuti internazionali (non a caso si intravede spesso una confezione di latte di cocco distribuita da una nota casa multinazionale) e una commistione di valori che rende gli srilankesi più Italiani degli Italiani stessi, rivalutando la concezione di “lavoro”, elemento primario per la sopravvivenza, e di “famiglia”. Fa sorridere anche che il cugino di Gayan, oltre al fare il badante, costruisca anche statuine per il Presepe: si è “glocalizzato”, il prodotto locale manifatturiero finisce con l’essere tale e si apre all’ economia di mercato. O che la cugina di Gayan si diletti nella lettura degli astri, recuperando quella tipica tradizione napoletana legata alla superstizione, di cui esiste ancora un forte retaggio evidenziato anche nell’udire la voce di un cartomante napoletano provenire dalle frequenze di una televisione locale.


Ed elemento di interesse è il duplice binario con cui si analizza l’integrazione napoletana. Se Gayan fa fatica a prendere dimestichezza con la divisa da badante e con le abitudini locali (la cultura che viene da “Palpitazione d’amore”, telenovela seguita dalla madre, ormai morta, di Alfonso e dall’anziana che il giovane ex campione di cricket accudisce; il lavoro sottopagato) rappresentando lo straniero per eccellenza, Alfonso diventa invece straniero nella propria città. Esce dai confini della sua esistenza sancita da anni di laboratorio biologico ed entra in contatto con la vita stessa, abbandona la “morte” e comincia a vivere, riscoprendo innanzitutto quella dose di orgoglio che aveva dimenticato e quella libertà di scelta che aveva rimosso. Da ex biologo precario licenziato e portasfortuna si trasforma in padrone del proprio destino, perché se è vero che le stelle dispongono il cammino è soprattutto l’uomo che decide la strada da intraprendere. La napoletanità di Alfonso è ancora legata al mondo della superstizione, in bilico tra credenze popolari, come la iella (cosparge tre volte il sale in casa propria e affida la sua giornata ai tre Magi) legata al lavoro della madre che lo fa vivere dentro ad un cimitero, e la scienza, attraverso lo studio delle cellule e la teoria dell’apoptosi (morte cellulare programmata). L’incontro con la cultura srilankese gli permette di aprirsi alla vita, di scoprire la vita e di abbandonare il suo stato di “dormiveglia”, trovando sia l’amore sia l’amicizia, rompendo il suo isolamento di “quasi morto”, come se quel non saluto a San Leopoldo Mandic (dimenticato all’inizio) indichi che non ogni cosa è “come Dio vuole, quando vuole”. E il tutto grazie alla paura che la “morte” decisa dalla camorra instilla in lui e in Vincenzo.
 
Vincenzo è invece il simbolo della Napoli marcia perché senza possibilità di scelta e/o libero arbitrio. È l’uomo politico in carriera, da consigliere aspira a divenire sindaco, padrone di una piccola impresa sartoriale e il cui cellulare risuona con l’inno composto per la sua campagna elettorale. Ha brama di denaro e prestigio in primo luogo e per raggiungere i suoi obiettivi non ha esitato a legarsi alla malavita. Le sue sorti dipendono da Don Fefè, boss locale attorniato da scagnozzi poco credibili nella loro descrizione esageratamente e volutamente parodistica. Vincenzo è “morto” sin dall’inizio, cinico, crudo e forse anche troppo sciocco nella sua supponenza, ridicolo. Cambia di fronte alla convivenza forzata con Alfonso, fatta di battute al vetriolo e sonniferi, di musica cingalese e possibilità di fuga. Dimenticato sul finale in mezzo a una sparatoria, è Vincenzo stesso che ricerca Alfonso, chiamandolo e scoprendo che i valori da seguire sono altri, dando al personaggio quasi un riscatto catartico di riflesso.
 
La parodia del sistema camorristico potrebbe far pensare ad un rimando al film d’esordio della Torre, “Tano da morire”, considerando la straordinaria coincidenza biografica che corre tra la Torre e la Randi. In realtà, siamo su due universi differenti: mentre la Torre riprendeva il sistema mafioso per esorcizzarlo dall’interno, la Randi usa il sistema camorristico come chiave di cambiamento delle mentalità circostanti. La camorra fa leva sulla coscienza di Alfonso e la cambia: da oggetto a soggetto della sua esistenza. Non si sconfigge la malavita (che per certi versi si annienta da sola, con l’impazzire delle “cellule scagnozzi”) ma la si deride: don Fefè, obeso e attaccato alle pastarelle napoletane (simbolica l’idea di ambientare i suoi magazzini all’interno di un supermercato vuoto, il consumismo abbandonato che lascia spazio al vassoio di dolci con panna, tipicamente locali) e il suo ghigno sono esilaranti e disturbanti al tempo stesso, gli scagnozzi in maglietta aderente e mutanda e panza in bella vista non sono certo delle cime di intelligenza e anche il raid all’interno del fondaco Paradiso ha qualcosa di beffardo, considerando che i malavitosi si bloccano proprio alle soglie del caseruoppolo in cui si trovano Alfonso, Vincenzo e Gayan.


Molti gli accenni alla situazione economica attuale, alla crisi economica che porta al licenziamento dei lavoratori precari, al lavoro sottopagato degli immigrati e alle condizioni cui devono sottostare (compromessi con i datori di lavoro, come le “partite a scacchi” e la conoscenza degli amori di Madame Estrella e Don Pedro, i protagonisti della telenovela), al sogno che lascia il posto alla triste realtà (Gayan da campione spreca il suo denaro per ridursi ad accettare un lavoro per lui degradante) e alla società dell’apparenza (il cugino di Gayan aveva mentito sulle sue condizioni di benessere in Italia), alla politica più degradante che si fa attraverso le pagine degli scandali da “Cronaca Vera” piuttosto che da quelle dei quotidiani, ai cinema che come “arabe fenici” rinascono e che si concedono alla massa (fatto evidenziato dalla programmazione del cinema “La Fenice”, gestito da Colasanti, l’amico a cui Alfonso si rivolge dopo esser stato licenziato e che lo indirizza verso la raccomandazione).


Non si può non sottolineare l'ottima prova degli attori protagonisti che citando una battuta sul gioco del cricket recitano “come compagni capaci di capirsi anche con un semplice sguardo”. Se Imparato dimostra di essere una conferma in un ruolo che lo rende simile a un Buster Keaton pensoso, Peppe Servillo dimostra invece che “buon sangue non mente”, conferendo simpatia ad un personaggio negativo e cavalcando la scena come in una composizione musicale in cui intonazioni e pause rendono il giro armonico poesia. Irresistibile la scena che vede Imparato trasformarsi in "badante", con tanto di vestaglietta casalinga, che pasce Servillo "vecchio".


Ottime infine le musiche di Fausto Mausolella, quasi da western etnico che strizza l’occhio al rock d’autore, e la fotografia del napoletano Mario Amura.


Imperdibile il finale affidato ai titoli di coda in cartonato, in cui ogni personaggio del film trova l’appagamento dei propri sogni.


Un piccolo film destinato a diventare cult che dimostra come i “miracoli” della commedia italiana possano ancora accadere a prescindere dal botteghino e come un “pastore sotto mentite spoglie” possa trasformarsi in uno dei Re Magi ricorrendo al semplice uso della scrittura, troppe volte dimenticata dai nostri cineasti. Siamo davvero "int' 'o Paradiso", per parafrase il titolo del film.
 

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