Regia di Giorgia Cecere vedi scheda film
Quanto duole dover sospettare che l’idea del cinema al femminile possa fornire un alibi alla romantica scontatezza di pellicole come questa: l’ingenua storia di una maestrina ambientata negli anni cinquanta, in un paese rurale del Mezzogiorno d’Italia. Un idillio contadino strappato al Cuore (nel senso del libro) e sciacquato nel candore dei romanzi televisivi, tra amori contrastati e pregiudizi popolari, in mezzo a vecchie nostalgie casalinghe prontamente soppiantate da nuove selvagge tentazioni. Nella narrativa che si fregia di parlare direttamente ai sentimenti ci sono le favole rosa, fatte apposta per sognare, i drammi strappalacrime che ormai formano un genere a sé; ma quale emozione dovremmo mai provare di fronte ad una ragazza che dice di aver “studiato da privatista” ed aver “vinto il concorso” e poi si mette a tirare il collo a una gallina come prova di coraggio? Il realismo è un modo di guardare al mondo che appartiene all’Arte tanto quanto la poesia, e che non si può banalmente improvvisare disseminando la scena di frammenti di cartolina illustrata, impiastricciandola di accenti rozzi e cadenze fintamente imbarazzate, e popolandola di figure “autentiche” come quegli attori non professionisti a cui vengono visibilmente suggeriti i movimenti e le battute. Quel cappellino rosso di deamicisiana memoria che svetta in mezzo agli ulivi è un vero antidoto all’incanto, così come lo è quella parlata calabra (?) che Isabella Ragonese a volte stucchevolmente forza, a volte completamente dimentica. Tutto risulta sgradevolmente approssimativo, a cominciare dalla somma “6+4” che la maestrina inspiegabilmente scrive, alla lavagna, come un’addizione da effettuare in colonna; per finire con la caratterizzazione della stessa protagonista, una Nena che a tratti appare lunatica, a tratti sprovveduta, e comunque sempre impacciata, oltre che incapace di impersonare il proprio ruolo sociale e rapportarsi correttamente con i bambini. Un personaggio complessivamente negativo, dal comportamento incoerente ed avventato, a fronte del quale sorge spontaneo un dubbio: forse chi, davanti a questo film, ha provato soltanto noia e irritazione, è caduto in un grosso equivoco. Forse credeva di avere a che fare con l’anacronistica copia di un feuilleton da rotocalco; e non si è reso conto che quest’opera, invece, voleva semplicemente proporre, in un contesto smaccatamente arcaico, e nel collaudatissimo formato di Rai Fiction, una provocatoria sintesi di tutti i più umilianti e retrogradi cliché sulla donna ed, in particolare, su quella che si definisce indipendente. Peccato davvero per chi, come me, non l’ha capito in tempo.
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