Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
Nell’ultimo film di Jan Svankmajer il sogno è una concreta necessità. È un indispensabile sfogo trasgressivo, in cui appagare per finta desideri veri. Evzen incontra l’amante solo durante le fantasie indotte dal sonno; il tradimento è puramente onirico, però ha lo stesso effetto di una scappatella autentica. Reale è, soprattutto, l’origine psicanalitica del suo amore clandestino: quella giovane donna, vestita di rosso, che porta un borsetta di coccodrillo, è una figura che, benché immaginaria, è il preciso riflesso di una parte fondamentale della sua storia personale. In essa il passato si sovrappone al presente, per mezzo di quella traslazione (il famoso transfert freudiano) che rimodella sul mondo di oggi i fantasmi delle esperienze di tanti anni prima. In questo modo le forme visibili diventano, contemporaneamente, manifestazioni della concretezza, che si può vedere e toccare in questo momento, e proiezioni di un concetto astratto, svuotato dei suoi contenuti contingenti, ed eletto ad idea universale: l’affetto materno, la paura della morte, il dolore di una perdita. Sotto l’obiettivo di Svankmajer passano immagini a tutto tondo, ed immagini piatte e stilizzate: le riprese dal vivo si alternano a collage animati, realizzati con frammenti di fotografie. Le due dimensioni – quella della percezione sensoriale e quella del pensiero – si mescolano, come avviene, in maniera creativa, nell’arte, e come del resto si verifica, in maniera spontanea, nella nostra vita di tutti i giorni. Il rapporto dell’individuo con l’ambiente è stratificato, la superficie dell’apparenza (il codice cifrato del simbolismo onirico) sottende le profondità dell’inconscio: nel quadro la prospettiva è schiacciata, e confonde i livelli, le proporzioni sono falsate, e tutto assomiglia quindi ad un incubo inestricabile. L’unico modo per sciogliere la matassa, per trovare la strada attraverso quel fitto labirinto è continuare a frequentare i suoi meandri, proseguendo a tentoni, fino a che non si incontra l’uscita: questa è la controparte mentale del bisogno fisiologico che spinge Evzen a continuare a cercare la sua Evzenie. La ripetitività che caratterizza le relazioni sessuali è, in effetti, un meccanismo che costantemente progredisce, perché, ogni volta, compie un nuovo passo verso una migliore conoscenza, verso un approfondimento del mistero: la stessa vita procede per cicli, eppure è soggetta ad una continua evoluzione. Svankmajer ci insegna, fin dalle sue prime opere, che lo scorrere del tempo, l’andamento dei rapporti umani, le dinamiche dei fenomeni naturali seguono sì un cammino circolare, eppure scandiscono, complessivamente, le tappe di una crescita, che ad ogni giro della ruota aggiunge qualche elemento nuovo. Il climax – che in Svankmajer coincide quasi sempre con lo sfondamento, il crollo, lo scoppio causati da un sovraccarico – si raggiunge, per approssimazioni successive, attraverso l’iterazione, la riproduzione, la moltiplicazione delle copie. A fare la forza è l’unione di tante cose uguali: esattamente come l’insistenza serve a ribadire un determinato concetto, il ritorno di un singolo motivo ricorrente (l’iniziale E nei nomi delle donne sognate da Evzen) serve a dare forma ad un indizio, a segnalare la presenza di un legame nascosto. La regolarità è la manifestazione esteriore delle leggi – prime fra tutte quelle dell’ereditarietà, che era il tema centrale di Sileni, e ritorna protagonista in questo film. Theory and Practice inizia come un discorso sconnesso, privo di organicità, dissonante come l’arbitraria commistione di live action e stop motion. Tuttavia, mano a mano che l’occhio si abitua al suo ritmo, e comincia, inconsapevolmente, a coglierne la segreta armonia, l’incomprensione si trasforma gradatamente in curiosità, poi in interesse, infine in passione: la passione intesa come la sofferenza che accompagna ogni avventura di scoperta, ed è mista alla pazienza ed al coraggio che occorrono per risalire all’origine dei nostri drammi, e svelare il contenuto dei ricordi sottoposti a rimozione.
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