Regia di Stefano Incerti vedi scheda film
Gorbaciof, nella storpiatura del cognome dell’ex presidente russo ci sta tutta l’ironia irriverente della napoletanità che affibbia il soprannome al protagonista inchiodandolo per sempre ad un personaggio di borgata, una maschera riconoscibile per la voglia sulla fronte indelebile quanto il nome stesso, come i suoi vestiti mai cambiati, la camminata svelta e un po’ ridicola, il silenzio. Una divisa e una maschera di un supereroe dei poveri che cerca di riscattare una vita bruciata in un presente squallido, un passato immemore e un futuro invisibile.
Marino Pacileo detto Gorbaciof (Uè, Gorbaciof!...è l’appellativo) è il contabile del carcere di Poggioreale che da dietro un vetro vede scorrere un anonimo ventaglio di umanità sul quale poggia il suo sguardo inerte. Trascorre le sue serate nello squallido retrobottega di un ristorante cinese dove gioca a poker ed è innamorato della ragazza cinese figlia del ristoratore. Uno spiraglio di vita, la chimera della fuga con la ragazza in pericolo di essere venduta per ripianare i debiti di gioco del padre. Il film è fisicamente Tony Servillo, attore istrionico catalizzatore di tutta la drammaturgia e che ritorna a fare i conti con quelle conseguenze dell’amore che lo resero famoso nel film di Sorrentino. Una maschera tragica dai lineamenti marcati e sottolineati da un trucco che in alcune espressioni ricorda la creatura di Frankenstein di James Whale. Come il mostro cerca di riscattare la propria natura sfortunata senza essere compreso, così Gorbaciof tenta di risalire la corrente, dibattendosi contro gli eventi che lo tengono inchiodato alla propria condizione, un plot che riprende l’epica di Carlito Brigante, continuamente invischiato nella criminalità suo malgrado ma totalmente ripulito dall’enfasi estetica di de Palma.
Pacileo porta su di sé lo sfascio di una società incomprensibile e assurda, avviluppante come le spire di un serpente mai sazio. Ad una azione corrisponde sempre una conseguenza per cui azioni sempre più irresponsabili costringono il personaggio ad una discesa verso il nulla. Uno sguardo impietoso e lucido quello di Stefano Incerti, asciutto come sono asciutti ed essenziali i suoi personaggi che comunicano a gesti, sguardi e ammiccamenti. Quando danno voce ai pensieri escono suoni gutturali, alieni, ringhiati con esasperazione. Uomini che non hanno più la capacità di comunicare, involucri svuotati di umanità e riempiti con l’esigenza del momento. A questo si aggiunga il lavoro sul suono, magnifico, vera colonna sonora diegetica fatta di soldi marci fruscianti che passano di mano in mano, in buste gracchianti e tasche capienti. Pernacchie di carte da gioco masticate dall’uso, sbattere di chiavi, cassetti, porte. Slot machine e sale corse. Suoni del gioco che scandisce la vita di Gorbaciof in attesa del colpo risolutore in grado di aggiustare tutto e consentirgli di volare via con la sua bella ragazza muta. Muta perché nell’incomprensibilità di due culture diverse gli idiomi sono un lusso che non ci si può permettere visto che anche tra consimili lo scambio verbale è pressochè azzerato.
Un film da vedere, non scontato, inusuale per la nostra cinematografia abituata ai dialoghi didascalici e alle storie veriste. Qui il verismo è messo alla berlina da un personaggio che sembra uscito dalla commedia dell’arte, un concentrato di tutte le contraddizioni di una società marcia in senso verticale, come ben mostrato dal film, dalle sue istituzioni più prestigiose fino all’ultimo cinese sfigato. Tutti impastati nella stessa melma fatta di disillusione, violenza e squallore. E’ una macchietta Gorbaciof, impelagato in impicci più grandi di lui per colpa di quel sentimento, l’amore, capace di stravolgere il senso di un’esistenza fino alle sue estreme conseguenze. Incerti segue costantemente il suo feticcio, lo pedina e lo scruta in primi piani forte dell’espressività di Servillo istintivamente intinto nella napoletanità, tanto da rendersi assolutamente credibile nonostante il gigioneggio con cui caratterizza il personaggio. Film grottesco e sottilmente cattivo che riprende e cita altri film più o meno consapevolmente, smembrandone l’epica. La maschera del mostro un po’ spaventosa, un po’ patetica; un Carlito Brigante cialtrone, come detto e il finale, beffardo, mutuato da una famosa scena di Pulp Fiction. Manca Wolf quello che risolve i problemi.
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