Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Chi fa della creazione artistica un mestiere ha forse più di altri l’esigenza di ricomporre gli infiniti e contradditori tasselli che definiscono la propria identità attorno a un nucleo stabile: alla base dell’evidente autoreferenzialità di “Sorelle Mai” vi è l’urgenza da parte di Bellocchio di imporre un sigillo di sincerità autobiografica a un complesso percorso d’autore nel quale si è fatto narratore di eventi storici, quali il terrorismo degli anni 70’ ( “Buongiorno Notte”) e il fascismo ( “Vincere”). E’ come se un ipotetico spettatore, fraintendendo, gli avesse mosso la medesima accusa mossa nel film da un allievo alla docente di lettera classiche ( Alba Rohrwacher) di essere meccanica e poco coinvolta nelle spiegazioni ed egli, ferito, avesse girato il lungometraggio, mettendo insieme emozioni e ricordi sparsi in una evocazione memoriale spontanea più che in un disegno compiuto. Un progetto corrispondente dunque alla domande di verità intime, emersione sulla pellicola di un paesaggio dell’anima, affabulazione frammentata di un universo interiore da contrapporre al cinismo calcolatore del recente cinema nazionale di successo.
Si ha però la sensazione che l’opera nata sotto forma di esercitazione scolastica nei laboratori di “Fare cinema” a Bobbio non sia in grado di dire molto in sé, a meno che non la si voglia considerare un’appendice o meglio una premessa utile per cercare di comprendere lo smarrimento e il sentimento di impotenza con cui ciascuno di noi, secondo la prospettiva psicanalitica adottata da Bellocchio, ha vissuto e vive la travagliata Storia patria degli ultimi decenni: continuiamo a sentirci orfani abbandonati da padri che noi stessi abbiamo ucciso.
Con passi felpati lo spettatore viene ammesso nel salotto buono della vecchia dimora di famiglia del regista piacentino in Val Trebbia: qui a custodire rigorosamente i “mani “ di casa Mai/Bellocchio sono due anziane zie, Maria Luisa e Letizia. Sono loro, con una gentile senilità ereditata da tempi remoti, ad accogliere i nipoti Sara( Donatella Finocchiaro) e Giorgio( Piergiorgio Bellocchio) quando tornano dall’esilio nella metropoli tentatrice e traditrice; esse portano i fiori al cimitero, pregano per le anime dei defunti, si preoccupano di acquistare una cappella perché ci sia un posto per tutti; sono sempre loro in assenza della madre Sara, a proteggere la crescita di Elena (Elena Bellocchio). Gli anni trascorrono, inesorabili, l’uno dopo l’altro, dal 1999 al 2008, senza scalfire le solide certezze dei vecchi, fedeli fino alla morte ai luoghi di nascita e alle tradizioni avite, inclini a perdonare le fragilità del prossimo; gli altri invece sono ombre vaghe in fuga, disorientati, prigionieri delle ambizioni e frustrati, ansiosi di liberarsi di padri e radici e di tornarvi; fra loro una bambina poi adolescente, guarda, si interroga, un giorno sceglierà chi essere.
A dominare le riprese apparentemente artigianali dei momenti di una vita familiare comune vi è il sommesso desiderio di celebrare poeticamente l’elegia di un ciclo in procinto di chiudersi per sempre, cristalizzandone l’inevitabile svanire nelle acque profonde del fiume eterno: le antiche ville diventeranno alberghi abitate dai fantasmi di nonni e zii, noi saremo lontani in viaggio chissà dove, chissà come, chissà se dimentichi delle vecchie canzoni che raccontano dei patetici adii al mondo degli uomini in frac.
Per confronti e percorsi culturali suggeriti dal film cfv mio blog: http://spettatore.ilcannocchiale.it/post/2613239.html
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