Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
La provincia è la prigione dei sogni. O forse è il loro scrigno, un forziere robusto che li conserva intatti attraverso le generazioni. Ed è pesantemente ancorato al suolo, ostacolando i voli, i viaggi, i cambiamenti. Quando la terra natia è piccola e antica, è un nido da cui è difficile staccarsi: il tempo l’ha reso accogliente, la civiltà vi ha portato la cultura ed il benessere, e a tutto ciò mancano solo la grandezza e la libertà. Restando all’interno dei suoi ristretti confini, ci si può sentire protetti, ed avere la sensazione di non avere bisogno di nulla. La piccola Elena sta benissimo lì dov’è: in quel borgo di campagna in cui vive nella casa delle sorelle della nonna, ed ha la sua compagnia di amici, con cui condividere la scuola, i giochi, il catechismo. Suo madre e suo zio, per contro, hanno visto, attraverso la prospettiva allargata della letteratura e della recitazione, il vasto universo che si estende al di là dell’orizzonte, dove possono diventare altro rispetto a ciò che il paese d’origine vorrebbe fare di loro. Eppure entrambi sono vittime di un sinistro richiamo alle radici, alla fedeltà ad un luogo a cui li lega il sangue, e che però li ripaga con la solitudine, la frustrazione, il riferimento alla vecchiaia e alla morte. Bobbio è il posto in cui è sepolta la loro madre, e dove Sara e Giorgio sono convocati per firmare documenti legati a questioni di eredità. Le loro zie, ormai anziane, hanno nel cuore l’acquisto di una cappella gentilizia, e i pochi ricordi relativi alle loro aspirazioni di gioventù, precocemente stroncate da un’esistenza relegata ai margini di una società chiusa e poco vitale. Il rifugio si confonde con la gabbia per chi, assecondando la propria introversione, si ritira nella sfera privata, rinunciando alle possibilità offerte dal mondo. Un misto di paura e di rassegnazione raffredda le passioni, sostituendole con affetti sommessi e duraturi. Un matrimonio in chiesa, un impiego in comune, un cimelio di famiglia da tramandare ai figli e ai nipoti sono i miti di chi ama vivere all’ombra dei propri avi, ricalcandone i passi, senza mai osare compiere alcuna deviazione. Marco Bellocchio vuole scavare, con strumenti semplici e genuini, dentro quest’anima unita da una poesia collettiva e sedentaria, che risuona nei giardini e nelle piazze, e parla un linguaggio proprio, luminoso e intenso come un canto popolare, cupo e profondo come una preghiera per i defunti. Le mani del regista si impastano di terra, mentre traggono, dalla sostanza vivente della sua stessa famiglia, gli ingredienti di un cinema in cui l’arte è il primitivo odore dell’argilla della creazione. Gli interpreti della sua storia sono in parte suoi parenti, in parte attori veri, come a testimoniare il desiderio di fare della realtà il palcoscenico in cui la finzione è l’elemento estraneo, fuori dal copione, a cui si riserva un ruolo separato, benché prezioso, una cosiddetta partecipazione straordinaria. Documentario e dramma sono il diritto e il rovescio dello stesso tessuto: il volto naturale porto dall’evidenza e dalla consuetudine e l’aspetto studiato dell’interpretazione, del dubbio, della possibile alternativa. I due opposti si fondono lungo il sottile crinale della verità che si racconta, che è sempre deliziosamente incerta, perché forse è inventata, forse è detta male, forse è alterata dalle emozioni. È un’entità sfuggente che si può circondare di parole ma mai centrare perfettamente col pensiero: ed il suo essere eternamente altrove, rispetto a dove crediamo di vederla, è la magia che produce l’illusione, la meraviglia, la rivelazione. E anche il trauma, lo spavento, la crisi: tutto ciò che è capace di scuotere l’umanità dal suo sonno, spezzando le logiche dello spazio e del tempo, inserendo nel presente ritagli di passato, e nella percezione frammenti di immaginazione. È così che il cinema si impadronisce della nostra vita, buttando all’aria le carte delle certezze, per ricomporle in un quadro nuovo: un solitario in cui ognuno, nella vita, può essere protagonista, semplicemente rompendo le righe, e facendo in modo che, per una volta, il mai di ieri possa diventare l’adesso di oggi.
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