Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film
Da un maestro apolide e difficilmente catalogabile, autore di almeno un capolavoro misconosciuto ("Deep End"), un film dalla trama ben poco originale, ma diretto con rara intensità e fervida inventiva. Servito da due memorabili interpreti, Skolimowski insegue il malcapitato prigioniero con la consueta "fisicità", dedicandosi a trepidanti soggettive e vertiginosi movimenti di macchina. Il puro istinto di sopravvivenza è il tema del film. Il protagonista è un talebano, che non ha altro in testa se non ciò che gli è stato impartito dagli addestratori (rievocato in flashback dal vago effetto flou, che costituscono forse il punto debole dell'opera). Nei momenti di estrema difficoltà, la sua memoria e la sua coscienza altro non hanno a cui appigliarsi, se non l'ottuso indottrinamento ricevuto. Il paradosso è proprio questo: sebbene il talebano sia stato addestrato a morire per una causa (ossia gli sia stata inculcata l'idea che la sua vita, in sè, non valga nulla), nel momento in cui si trova allo stato brado, costretto a mangiare formiche e braccato da un'orda di cacciatori, fa i salti mortali per sopravvivere, dimostrando un assurdo e masochista attaccamento alla mera esistenza materiale. Quasi un'ossessione, primordiale ed inconscia, per la vita. Come il protagonista di "Deep End" aveva un'ossessione, altrettanto viscerale, per una donna. Ossessione scolpita da un mdp che non conosce requie, salvo quando incontra un'immagine che racchiude metaforicamente e sarcasticamente il senso dell'intero film: quel cervo che "libera" il prigioniero, poco prima di venire illuminato dal bagliore di un faro, astratta epifania ferina in cui il fuggiasco può rispecchiarsi e ritrovare la sua natura animale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta