Regia di Athina Rachel Tsangari vedi scheda film
La vitalità del cinema greco contemporaneo è sorretta da un gruppo di autori che dimostrano di saper lavorare su di un asse linguistico comune, come quello di trattare storie dalle caratteristiche piuttosto estreme. La regista Athina Rachel Tsangari con Attenberg si allinea alla tendenza di un cinema marginalizzato (ma affatto marginale) che si propone un’operazione semantica dell’immagine come del testo attraverso la quale rifuggire dagli schematismi delle regole dello spettacolo di massa, dai suoi stereotipi, dalla ripetitività, dalla riconoscibilità di situazioni che ne favorirebbero una più superficiale assuefazione. Come già per il capofila di questo gruppo di cineasti, G.Lanthimos ,ogni riferimento alla situazione sociopolitica attuale della Grecia viene lasciata dalla regista in subordine, relegata ad una messa fuori quadro, o addirittura negata. Ancora una volta la protagonista principale è la donna, come se per elaborare le implicazioni di realtà complesse fosse indispensabile la centralità femminile visto come nuovo, vero, soggetto sociale. Deprivata da ogni funzione di ruolo tradizionale che le si affibbia in ogni società, la donna, Marina in questo caso, molto vicina ai personaggi della trilogia di Lanthimos come alla rinascita della Justine di Melancholia, riscrive le proprie coordinate esistenziali prima mortificate e compresse da un vuoto potere dell’uomo, in cerca di una liberazione che deve avvenire con momenti di consapevole e forte rottura. Marina è un personaggio disturbante che quasi irrita, condizionata da un’educazione paterna che l’ha protetta sotto una campana di vetro, ignara e difesa da ogni tipo di relazione con l’esterno. Un ipotetico collage che unisce la figura dell’uomo con il padre padrone di Kynodontas o con quello di Miss violence sembra descriversi come un passaggio obbligato entro il quale far convergere una critica spietata ai valori più tradizionali e ad un radicalismo retrogrado evidentemente solo nascosto dalla modernità ma affatto superato. Se si vuol cogliere una differenza sostanziale con Lanthimos invece, si nota in Attenberg un capovolgimento della relazione fra soggetto e situazioni ambientali che nel caso della Tsangari mira a rimarcare la predominanza del soggetto, Marina, rispetto a tutto il resto. La giovane donna ventitreenne, assiste impotente il lento spegnersi del padre malato terminale, immune e lontana dall’avere una vita sessuale, (non ha neanche mai baciato qualcuno) frequenta una sola amica dalla quale prende lezioni di vita che non la convincono, si nutre in continuazione di documentari sugli animali dai quali invece vuole prendere ispirazione per una diversa filosofia di vita. S’innesca invece una etologia sentimentale del distacco che cresce alla pari dell’avvicinarsi della fine del padre e con l’ approccio ad una vita sessuale spogliato davvero da ogni tipo di retorica. Quello che potremmo definire come il risveglio o la rinascita sessuale della protagonista però non bilancia a dovere tutti i temi importanti che il racconto riesce a smuovere, ed il distacco di Marina appare più come un calcolo abbastanza programmato che una vera e propria conseguenza della trasformazione del suo stato d’animo. “C’è una ragione per cui noi mammiferi abbiamo dei tabù. Assicura la propagazione della specie senza difetti” dirà il padre nel film, e forse il rapporto padre figlia avrebbe meritato un poco più di spazio di approfondimento psicologico, a scapito magari dei siparietti simpatici ma abbastanza ripetuti che coinvolgono Marina e la sua amica mentre imitano le movenze degli animali. Attenberg rimarca la solitudine dei suoi componenti, le inquadrature con il padre includono sempre qualcosa oltre a lui che appartiene al suo mondo, quello che invece è negato a Marina che simboleggia una frattura generazionale, proiettata indefinibilmente verso un’etica del rifiuto di tutti quei valori o pseudo tali che l’hanno vista crescere. Basterà la scoperta del sesso apparentemente slegato da meccanismi relazionali ed emotivi ma più vicini ad un’agognata animalità e purezza per provare a vivere meglio?
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