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Attenberg

Regia di Athina Rachel Tsangari vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Attenberg

di alan smithee
8 stelle

Si respira l'aria severa e allo stesso tempo bizzarra ma irresistibilmente attraente, sessualmente languida e mortifera che abbiamo incontrato nei film fino ad ora visti di Giorgios Lanthimos. Che guarda un po' figura pure tra gli interpreti di questo strano ma riuscitissimo film della Tsangari, nel ruolo del padre ingegnere malato terminale della protagonista ventitreenne Marina. Una ragazza sveglia, dall'atteggiamento diffidente ed ispido nei confronti di chi gli sta attorno, ancora ignara di vere e proprie esperienze sessuali e per questo disposta a trarre almeno i rudimenti da una compiaciuta coetanea, al contrario di lei molto esperta in materia. Marina divide il suo tempo tra una piccola occupazione e la malattia del padre; almeno sinché non conosce per caso un giovane, col quale decide di avere il suo primo rapporto completo: per lei, appassionata di documentari sugli animali (girati dal famoso esperto naturalista Sir David Attemborough, fratello dell'altrettanto Sir Richard omonimo, il regista di Gandhi per intenderci; un cognome complicato che poi la ragazza storpia in Attemberg) e studiosa in profondità del comportamento affettivo e sessuale dei mammiferi in genere, il rapporto sessuale viene affrontato come un esame da ripassare mnemonicamente nelle sue più complete sfaccettature, generando così situazioni quasi imbarazzanti nei confronti del suo partner paziente ma un po' sconcertato. Allo stesso modo Marina pianifica con una calma glaciale che nasconde tuttavia un turbamento estremo, la prossima morte del padre, disponendo affichè le sue ceneri vengano sparse in mare (dietro espressa volontà di quest'ultimo) e per questo motivo il corpo spedito all'estero, fatto cremare e riportato indietro in un'urna. Freddo, matematico come un teorema, il bel film della Tsangari, in concorso a Venezia nel 2010 e vincitore di una meritata Coppa Volpi per la protagonista, una bella ed inquietante Ariane Labed, può urtare i nervi ad un pubblico non avvezzo a certe tematiche e grazie alla disinvoltura spietata con cui sono trattati certi argomenti (ma al confronto dei film di Lanthimos tutto ciò è pur sempre una passeggiata!). Resta in ogni caso un notevole esempio di cinema che si fa portavoce di una concezione asettica di una umanità che persa ogni parvenza di puro sentimentalismo, percorre uno studio di se stessa e del genere animale per ritrovarsi e darsi delle regole o delle certezze che tengano da parte il più possibile i sentimenti, salvo poi rimpiangerli. Circondato da una cittadina dalle architetture post-moderne orribili e sperimentali, il film punta molto su una fotografia che smorza ed attenua i colori rendendo grigio e velato un cielo greco che non riusciamo a riconoscere e ad accettare. Intanto poco prima dei titoli di coda che riprendono la desolazione fredda e spoglia di una discarica, la celebre canzone "Le temps de l'amour" di Francoise Hardy chiude ironicamente il sipario (come pure viene citata e cantata nell'ultimo esilarante film sui boy scouts innamorati di Wes Anderson) su questa arida distesa di ghiaccio, un freddo interiore che disumanizza ogni legame e dissipa ogni barlume di sentimento e procura ferite laceranti all'animo prima ancora che al corpo.
"C'est le temps de l'amour 
le temps des copains
et de l'aventure
Quand le temps va et viens
on ne pense à rien
Malgré ses blessures....."

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