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13 assassini

Regia di Takashi Miike vedi scheda film

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La recensione su 13 assassini

di M Valdemar
8 stelle

Takashi Miike non fa harakiri. Il prolifico, “indisciplinato” regista si lancia nell’ardimentosa scommessa di girare un tradizionale jidaigeki rifacendo un classico del 1963, omonimo, di Eichii Kudo, e la vince, fugando dubbi e perplessità. Come una katana che con un solo, preciso ed elegante movimento mozza una testa, così Miike fende ogni preconcetto a colpi di (grande) Cinema, omaggiando nobili ascendenti ed antichi valori, ma non rinunciando comunque alla sua riconoscibile impronta stilistica, che imprime con calcolata levità nel melmoso corso di una storia tragica e necessaria.

Il film si apre con un samurai che si suicida - compiuto rispettando la sacralità e la rigidità formale richieste dal rituale - ed attuato come espressione estrema di protesta contro la condotta, dispotica e malvagia, di Naritsugu, fratellastro dello Shogun, e come tale intoccabile anche per colui che ne amministra la giustizia, il Gran Ciambellano. L’impotenza delle istituzioni, l’arroganza del potente. Ora come allora. L’onorevole posizione e il “nome” non possono essere messi in discussione, pertanto il ciambellano delibera segretamente per l’eliminazione del tiranno, dandone mandato al valoroso

Shimada Shinzaemon, il quale intravede in questa missione la possibilità di aderire finalmente al proprio destino di samurai, in un’epoca decadente in cui tali figure sono ridotte a esseri ornamentali da esibire, viziosi e annoiati, sterili segni di un glorioso passato. Shinzaemon viene convinto definitivamente a dare corso all’ardua impresa e formare quindi una squadra di guerrieri, a causa dell’orribile visione di una donna i cui arti e la lingua sono stati mutilati per puro diletto da Naritsugu; una scena buia, rabbrividente mostra la vittima che per descrivere quanto successole, su un tessuto scrive, con un pennello tenuto fra i denti, “massacro totale”, con l’inchiostro nero “violentato” da copiosi fiotti di sangue fuoriusciti da occhi e bocca. In questa prima parte, lenta, verbosa, girata perlopiù in interni Miike fa sfoggio di uno stile classico ed eloquente, in cui innesta in maniera diabolicamente armoniosa le venature tipiche della sua folle poetica; servito ottimamente da dialoghi incisivi e non banali, e scenografie e inquadrature curate ed efficaci. Costituisce il tutto un lungo (ma non pretestuoso né noioso) preludio alla battaglia, epica e senza sosta, che si estende per circa tre quarti d’ora: un portentoso apparato action, dalle complesse strutture e coreografie, stupendamente realizzate e definite, che testimoniano notevole abilità ed incredibile tecnica. Armi come fossero naturale proseguimento di braccia e mani che si muovono con furore e poesia, “dipingendo” incanto e devastazione; un paesaggio progressivamente corroso da oscuro fango in cui confluiscono sangue e brandelli di carne, in cui marciscono valori come onore, lealtà e giustizia e da cui “vivere” la morte, propria e del maestro - vista con un’inquadratura bassa e capovolta che ci rende angosciosamente partecipi della triste fine di un giovane samurai. Un Miike eccellente, capace di variare con qualità registri, sia visivi (passando dai tenebrosi e gravi spazi della prima parte alla lussureggiante sfuggevolezza di stupendi verdeggianti siti montagnosi, sino ai paludosi tratti di un villaggio/trappola) sia narrativi (l’etica del samurai, il contesto storico-politico, l’inadeguatezza di un sistema socio-culturale eccessivamente rigido, fuori dal tempo). Due personaggi sembrano essere ascrivibili ad altri film del regista: il primo è il perfido Naritsugu, uno psicopatico la cui noncuranza e leggerezza nel commettere azioni sadiche e atrocità è pari al suo desiderio di provare vere emozioni - uccidendo, irridendo, manifestando l’intenzione di ristabilire il tempo di guerra, incitando il suo braccio destro a scegliere “la via più folle” ed infine gettandosi beatamente nel duello finale nel quale, appena ferito, suscita lo stupore del suo avversario che gli chiede se prova dolore. Il secondo è il tredicesimo assassino, “raccolto” sulle montagne, che si rivela essere un folletto immortale ed anarchico, che trova i samurai (e loro “risse”) noiosi e che anela unicamente all’amore, perduto. Grande Miike.

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