Regia di Richard J. Lewis vedi scheda film
La versione di Barney: per chi non ha letto il libro
La versione di Barney è una commedia agrodolce a lieve retrogusto nichilista tratta dal libro di culto di Mordecai Richler del 1997.
Barney Panofsky, facoltoso ebreo canadese, produttore televisivo alle soglie della demenza senile, ripercorre con la memoria i momenti più importanti della propria vita. Le tre mogli, i figli e la misteriosa scomparsa di Boogie, il suo miglior amico, caduto nel lago della casa in collina dopo averlo sorpreso a letto con la sua seconda moglie.
Questo il filo rosso che lega tutte le storie e costringe Barney a fare i conti costantemente con il proprio passato, solleticato in modo ossessivo dal detective che si occupò del caso e autore del libro che lo addita come assassino. Il film pastoso, fotografato benissimo e diretto con mano invisibile da Richard J. Lewis , si pone come palco ad ospitare le straordinarie performance [1] di Paul Giamatti/Barney Panofsky, già premiato con i Golden Globes e in odore serio di Oscar, e Dustin Hoffman/ Panofsky Sr.
Hoffman, dopo un lungo peregrinare in parti mediocri, finalmente ritorna a illuminare la scena nei panni di Izzy, lo sboccato e irriverente padre di Barney e unica guida spirituale delle debolezze umane del suo confuso figliolo. Padre e figlio, due generazioni che viaggiano parallele e capitate quasi per caso sul pianeta terra a fare da termine di paragone delle virtù altrui. Pancioni e ciondolanti, disillusi e annebbiati dall’alcol, sono gli unici a mantenere una sorta di coerenza verso la loro natura sfrontatamente autodistruttiva.
La faccia da cagnone stanco di Giamatti connota Barney Panofsky , ritratto come un goffo Bukowski impegnato a scrollarsi di dosso la satolla e rincoglionita borghesia ebrea della quale tuttavia fa parte. Costantemente sospeso tra fedeltà e tentazioni femminee, il whisky e l’hockey come perni fissi attorno i quali gravita il suo mondo, Panofsky sembra sempre fuori posto e fuori contesto, un po’ arruffone e arrogante, ironico e vulnerabile.
Il film è costruito sui flashback, scampoli di memoria che illuminano l’ormai anziano protagonista facendo luce su avvenimenti passati, sulle cause dei divorzi, tradimenti e il mistero della fine di Boogie . Si ride e ci si commuove con moderazione. Moderazione sembra essere la parola d’ordine con la quale il film è stato girato. Gradevole commedia e dramma con finale tirante al patetico, La versione di Barney accumula eventi fidandosi della verve degli attori, ma sconta una sceneggiatura non sempre centrata e puntuale. Alcuni sviluppi narrativi sembrano farraginosi, appiccicati per fare progredire la storia, estratta della materia magmatica del libro, vero capolavoro della letteratura contemporanea ma concentrandosi sui fatti non sulla loro forma. Risulta così un film sicuramente buono ma non eccezionale, irriverente ma non così tanto da evitare un puntuale passaggio in tv in prima serata. Qualche guizzo, qualche battuta veramente azzeccata ma il ritmo non sostenuto che fa sentire in pieno la durata della pellicola, e la scelta di non sporcarsi del tutto le mani con le pulsioni del protagonista rendono il film elegantemente convenzionale.
[1] Le performance degli attori sono sempre parziali quando è presente il doppiaggio. In questo caso sarebbe fondamentale vedere il film in lingua originale per apprezzare completamente il lavoro di costruzione del personaggio, la cui voce è un elemento cardine.
La versione di Barney: per chi ha letto il libro
Beninteso, questo è un esercizio che facciamo per gioco, per spirito di servizio. Il confronto tra libro e film è cosa che mai si dovrebbe fare, se non per un chiacchiericcio di sottofondo in un fine serata una volta esauriti gli argomenti intellettualmente stimolanti. Film e carta stampata hanno delle specificità incompatibili che derivano dalla visualizzazione, è bene ricordarlo, non dalla fonte diretta del testo ma dalla riduzione a sceneggiatura dello stesso. Ne deriva che l’esercizio della misurazione del tasso di barneytà del film nei confronti del libro di Mordecai Richler da usarsi come indice di gradimento, è assolutamente inutile oltre che fuorviante. Detto questo, astenersi dalla visione i cultori del libro che si attendono di veder rappresentate sullo schermo le impervie vette letterarie di uno dei più bei libri del secolo scorso, ne ricaverebbero una delusione mortale.
La versione di Barney era considerato uno dei libri intraducibili per lo schermo, e questa sua intraducibilità è rimasta tale. Il film prende il telaio sul quale la storia è stata scritta per visualizzare una commedia romantica a tinte moderatamente acide. La struttura magmatica del libro, questo flusso di coscienza autobiografico impetuoso e urgente che coglie il protagonista, un agiato ebreo canadese, prima dell’oblio della demenza senile è stato modificato in un rassicurante ricordo del tempo che fu. Perché la versione di Barney, quindi? Il senso del titolo sta nella virulenta versione del protagonista verso i fatti che lo hanno visto protagonista in vita. Non solo i fatti, che sono presi nel film anche se in maniera più edulcorata, ma la sua versione della filosofia della vita stessa, lui, traditore che accusa di essere stato tradito, forse assassino immemore del suo migliore amico. Cattivo padre, alcolista e pessimo marito, sottilmente razzista, sessista, acido e fulminante nelle battute come nei giudizi sospesi tra la cattiveria gratuita, lo sfottò e la commiserazione.
Un ribadire con forza la propria umanità fatta di debolezze e coerenza spastica, continuamente travisata dal gioco del vero e del falso, dei flashback che si mischiano alla realtà, un bolo di vita vomitato nella lunga confessione del libro. Il mondo di Barney è formato da donne, dagli scherzi crudeli al marito della sua terza moglie, dalle lettere anonime, dai personaggi scalcagnati che affollano la sua casa di produzione televisiva. Soggetti oggetto del suo giudizio. La versione di Barney è appunto la versione, non necessariamente la verità.
Il film non ha la stesso ritmo brutale del libro e rinuncia alla struttura autobiografica. Benchè i fatti siano sostanzialmente gli stessi, l’immagine sullo schermo è tirata a lucido, ripulita dalla rabbia e dallo sberleffo. Qualcosa è rimasto nella fisicità del personaggio, in alcune sboccatezze, nel sense of humor politicamente scorretto che è tenuto ben saldo col morso in bocca. Ciò che manca nel film non è tanto la coerenza filologica quanto la potenza evocativa della vita di un personaggio borderline, menzognero quanto generoso, un cattivo capace di atti di tale bontà da sembrare un buono che ogni tanto commette cattiverie giusto per il gusto di rendere ancora più ambiguo il proprio essere.
Il film, come spesso si dice, è un’altra cosa, se si fa guardare è solo per le interpretazioni dei protagonisti, Giamatti/Hoffman, completamente calati nella parte anche se costretti a recitare uno script morbido nel quale non si riafferma nessuna identità esclusiva, nessun ribadire le ragioni della propria esistenza e quindi, coerentemente, diretto nella forma convenzionale della classica commedia sentimentale americana, portatrice di qualche sbadiglio, qualche sorriso, qualche pizzicotto ma niente di più. Panofsky senior che muore in un bordello facendo ciò che più amava al mondo forse meritava qualcosa di diverso.
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