Regia di Feo Aladag vedi scheda film
La storia è quella di una fiction. I toni sono quelli di un film d’autore. Alla fine il cinema prevale sulla televisione, facendosi strada a furia di vuoti: attimi di solitudine, quadri di sterilità interiore che allargano la trama sconnettendone i passaggi obbligati, le evoluzioni scontate. In questo modo la classica vicenda della donna che “disonora” la famiglia diventa una moderna avventura esistenziale, in cui il silenzio sottolinea le fasi di attesa, e le grida i momenti di disperazione, nei quali tutti, vittime e carnefici, finiscono per commettere tragici errori. La giovane Umay vive ad Istanbul col marito Kemal e il figlioletto Cem: un matrimonio infelice, segnato dall’autoritarismo dell’uomo e dall’invadenza dei suoi parenti. Un giorno la donna decide di sottrarsi a quell’ambiente oppressivo, ricongiungendosi ai suoi genitori e ai suoi fratelli, che vivono a Berlino. Ma da loro riceverà soltanto incomprensione ed ulteriori soprusi, e sarà nuovamente costretta a scappare. Lei e gli altri personaggi sono incapsulati nell’impossibilità di intessere veri legami affettivi, di avere un confronto sincero e costruttivo col prossimo. E così Umay rimane sospesa tra due mondi, a cui appartiene per motivi anagrafici, ma che ugualmente la respingono: il paese d’origine e la terra d’immigrazione, che non sono in grado di assicurarle la libertà di cui avrebbe bisogno. Ovunque vada, Umay si trova perseguitata da una famiglia-clan che ai suoi membri non dà, né chiede amore, ma da loro pretende soltanto l’obbedienza alle regole. D’importanza vitale è, infatti, la rispettabilità del sangue, che, una volta macchiato, tale rimane per sempre. Umay, agli occhi dei suoi, è una fedifraga senza diritti, indegna di essere madre, e meritevole soltanto dell’ostracismo più assoluto, accompagnato, se occorre, dalla violenza fisica e morale. È questa azione repulsiva a riempire l’atmosfera rarefatta del film, a costituire un campo di forze che isola ogni individuo dentro l’irrimediabilità della sua condizione. Questa è, per ognuno, una terribile forma di schiavitù: un assoggettamento totale ed imbelle alle imposizioni sociali, oppure una crudele sentenza che condanna all’emarginazione. I rapporti umani sono assenti, in una rassegna di istantanee in cui i personaggi vengono perlopiù ritratti singolarmente, e in uno stato di immobilità: le loro figure, private delle dinamiche interpersonali, si relazionano unicamente allo statico scenario che fa da sfondo al loro mondo chiuso e miope. Ogni via di uscita è un miraggio passeggero: un magnifico sogno che irrompe nell’immagine come un lampo di luce, per rivelarsi, subito dopo, come il passeggero riflesso di un’assurda illusione. Il romanticismo si affaccia timidamente, di tanto in tanto, nei momenti in cui il dramma si concede una pausa, e la freddezza del cinismo cede il passo all’infiammato coraggio della passione. Ma l’intermezzo dura lo spazio di un secondo, come un guizzo del pensiero che riesca fortuitamente a sfuggire all’ottuso peso del rigore. La poesia è imprigionata in un sistema che sa solo emettere giudizi e valutare le convenienze, e si rifiuta di riconoscere l’imperfezione che produce la debolezza e scatena il dolore, e la bellezza che chiama con sé la spontaneità e la fantasia. Un figlio non è un virgulto di gioia, ma solo un articolo da possedere: il piccolo Cem è ridotto ad un oggetto conteso, al termine di un ricatto, e quindi è trattato come un essere inanimato, di cui si dimenticano i sentimenti e si calpestano i desideri. Tutto ciò fa parte di un gioco spietato in cui sopravvivere significa resistere, e resistere significa essere ciechi. Significa, in altre parole, negare la vita stessa, che è fatta di movimento e di diversità. Il movimento del titolo inglese, When We Leave, che ci fa andare via, lasciandoci qualcosa alle spalle. E la diversità del titolo originale Die Fremde (La straniera), che ci vede esuli in mezzo a gente estranea, costringendoci ad affermare la nostra identità, a dispetto di quelli che si ostinano a non volersi mettere in discussione e cercare di cambiare.
When We Leave è stato il candidato tedesco all’Oscar 2011. L’attrice Feo Aladag, già interprete di numerose produzioni televisive, è al suo primo film da regista.
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