Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
presenti piccoli spoiler
Mario è il dattilografo dell'obitorio, quello che scrive a macchina i responsi delle autopsie.
Live, intendo, sempre che live c'entri qualcosa in un tavolo con un corpo morto sopra.
Ecco, mi stavo scervellando per capire la sensazione che questo particolarissimo film, al confine tra il tragico, il grottesco, il drammatico e lo storico mi aveva dato, non riuscivo a dare un nome a sta sensazione e invece quel nome, o quei nomi, erano lì, in quel tavolo mortuario e in quel corpo.
E sono nomi come il fastidio, la freddezza, la sgradevolezza, il disagio, bingo, il disagio, ecco la sensazione principe.
Post Mortem ti dà le stesse sensazioni che ti dà vedere un'autopsia, materia stessa del suo racconto poi.
Tutto è freddo come in un film di Haneke, tutto è sfuggente, tutti i personaggi hanno qualcosa sotto che non vediamo, sono subdoli, imperscrutabili, la fotografia è vecchia e sgranata (anche se il film è del 2010, ma ambientato nel 1973, durante il colpo di stato contro Allende), la stessa materia del film, fatta di esistenze senza prospettive e corpi morti da analizzare, ha qualcosa di sgradevole.
All'inizio, sarà per la somiglianza dell'attore protagonista con Servillo, sarà per una regia molto molto varia (che alterna piani sequenza in movimento a quadri fissi di minuti), sarà per quel personaggio principale così misterioso e solo, sarà per quel particolare rapporto, che lui crede amore, che trova, ecco, mi sembrava di essere in una specie de Le Conseguenze dell'Amore sotto la minaccia di un colpo di stato.
Poi il film diventa altro, si fa ancora più cupo, la Storia, quella maiuscola, vi entra un pò più pesantemente e ci discostiamo completamente dal capolavoro sorrentiniano.
E' come se ci fossero non due ma tre livelli in Post Mortem.
Quello della vicenda personale del dattilografo, personaggio gogoliano, che si innamora di una ormai dismessa ballerina di burlesque.
Quello della Storia del Cile, con il colpo di stato militare di Pinochet contro il governo Allende.
Ma a questi due livelli microscopici e macroscopici, microcosmici e macrocosmici si aggiunge un terzo livello, quello del film stesso, che pare essere cosa a sè, pare avere un'anima nera personale.
Ce ne sono molti di film che incrociano le storie individuali a quelle storiche di un Paese ma la maggior parte poi si limita a raccontare questo incrocio.
Invece Post Mortem sembra avere uno stile e un'atmosfera che prescindono dalla materia trattata, come un foglio nero su cui poi si disegnano o scrivono le due storie parallele.
La sequenza madre, quella che unisce in maniera mirabile queste due storie parallele, che le perpendicola, è l'autopsia allo stesso Allende.
Scena terribile, fastidiosa, densa, soffocante.
La forza delle immagini, tutto quello che quella morte rappresenta per uno Stato, il cranio divelto, l'assistente che si rifiuta di "trattare" il corpo del suo Presidente a suo parere non suicida, l'analisi autoptica che con dovizia di particolari racconta la traiettoria del proiettile, i militari che controllano, tutto è soffocante.
E poi quei corpi di vittime di guerra che continuano ad arrivare e Mario che ancora crede nell'amore di questa donna, Mario, essere schivo, timido ma allo stesso tempo capace di ripugnare, non cristallino.
Non c'è vita in Post Mortem, non c'è vita lapalissianamente in tutti quei corpi morti, non c'è vita nella storia, che non ha guizzi, non c'è vita in quei personaggi disillusi, morti dentro, non c'è vita in un pezzo di Storia pieno di morte, non c'è vita nella fotografia, nei movimenti, nelle vicende.
E forse l'unico vero attimo di vita, l'unica azione vitale, l'unica volta che non sembriamo, noi o i personaggi, in balia degli eventi, è in quel finale (che mi rammarico di aver previsto 40 minuti prima, sarà che quella scena ce l'ho nel mio cuore da 5 anni, per colpa di un horror spagnolo che quel cuore me l'ha lacerato) l'unico lampo di vita è un'azione che porta ad una morte, sono mobili, sedie, materassi e comodini e una porta che non si aprirà più.
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