Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film
Il terrore è un pagliaccio triste, la cui sinistra missione è vendicare il dolore, allo scopo di poter finalmente essere felice. Purtroppo la sofferenza gli è irrimediabilmente impressa sul volto, nei colori lunari della farina e del carbone, come cicatrici che eternano il pianto, rendendolo tutt’uno con la smorfia della rabbia. La vicenda di Javier Granados, il clown figlio di un uomo catturato dai franchisti durante la guerra civile spagnola, rappresenta la scia di sangue che attraversa la storia senza soluzione di continuità, trasportando intatta, attraverso il tempo, la logica della violenza che si autoriproduce, in un inarrestabile ciclo di odio e morte. È lui l’anello di congiunzione tra i massacri del 1936 e gli attentati dell’ETA, tra le stragi di civili e le selvagge manifestazioni di una società che, a metà degli anni settanta, non sembra ancora in grado di darsi una morale che regolamenti la vita pubblica e privata. Il circo è l’ambiente dell’utopia cruenta e macabra, dove si sogna a suon di bestie feroci e uomini sparati dal cannone, di nani usati come oggetti da lancio e fanciulle costrette a volteggiare appese a un filo. Come nella politica, tutto è show, e nulla è umanità: l’anima tace, mentre la carne si lascia martoriare per fare scena. Lo stile di Alex de la Iglesia è un realismo grottesco e iperbolico, che schiaffeggia lo sguardo per risvegliarlo dal torpore del linguaggio metaforico: tutto è simbolo, a cominciare dai personaggi che abitano i carrozzoni e si esibiscono sotto il tendone, e che, al pari dei potenti di turno, rappresentano una squallida filosofia dell’apparire che fa solo paura, impressione, e a volte anche un po’ pena. Tuttavia è necessario ricordare che questi sono individui effettivamente appartenenti alla realtà, che agiscono concretamente, e quando scatenano la loro perversa follia, riescono sul serio a ferire e a uccidere. Come lo spettacolare attentato al primo ministero Luis Carrero Blanco, la cui automobile volò, il 20 dicembre 1973, oltre il tetto di una casa di sei piani, la cronaca quotidiana dei periodi di crisi è un fantasmagorico fuoco d’artificio, un acrobatico numero da saltimbanchi, però è tutto dannatamente vero. Ci sono le vittime e ci sono i carnefici, esattamente come, sulla pista di sabbia, ci sono le belve e i domatori, c’è chi dà le sberle e c’è chi le riceve, e nulla avviene per finta. I ruoli imposti dal copione finiscono per rimanere cuciti addosso alla persona, continuando anche fuori dal teatro: il travestimento diviene così una divisa, l’uniforme di tante battaglie assurde e crudeli, alla quale, alla fine, per nulla al mondo si vorrebbe rinunciare, anche a costo di doversela tatuare sulla pelle. In Balada triste de trompeta il “trash d’autore” diviene una sofisticata forma di poesia nera, in cui anche il pugno allo stomaco appare assoggettato ad un'estetica astratta, che costantemente devia verso il gioco, verso il regno delle bambole e dei burattini; e intanto, applicando al mondo i suoi filtri surreali, ci pone sotto gli occhi la prolifica, fantasiosa ed incredibile creatività del Nulla.
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