Regia di Aleksei Fedorchenko vedi scheda film
Aist lavora in una cartiera, ma scrive per tramandare il ricordo del padre poeta, discendente del popolo merja. Una mattina viene chiamato dal principale, Miron, che lo invita ad accompagnare la salma di Tanya, sua moglie, nel viaggio finale, secondo la tradizione dell'antico popolo. I due uomini si mettono, così, in viaggio per i territori della Russia accompagnati da una coppia di zigoli in gabbia... Denis Osokin è Aist Sergeyev e, con questo pseudonimo, pubblica nel 2008 la novella "Ovskyanki", tradotta nella lingua del bel paese "zigolo". Aist Sergeyev è anche il protagonista della novella di Aist Sergeyev e, giusto per ingarbugliare la matassa, la penna dello scrittore russo sceglie per il suo personaggio letterario il lavoro di scrittore. Dalla macchina da scrivere del Sergeyev di carta esce il dattiloscritto pseudo-biografico, da cui, poi, Osokin pone le basi della sceneggiatura del film di Aleksey Fedorchenko dal titolo "Silent Souls". Insomma lo scrittore prende a prestito il libro del proprio personaggio e ne fa un film. Si sà che ai russi piacciono le matrioske per cui lasciamo che si divertano ad inserire uno scrittore dentro l'altro, e non preoccupiamoci, nemmeno troppo, di elaborare dissertazioni sull'arte che si avvale dell'arte per descrivere una finta realtà od una vera finzione, come la premessa suggerisce. Occupiamoci, piuttosto, della sostanza filmica le cui basi sono ben radicate nella poetica della pagina scritta pur raggiungendo il vertice nella direzione artistica che Fedorchenko sviluppa in un cammino breve (78 min) e molto personale. Se, idealmente, scalassimo uno ziqqurat, ma lentamente, per evitare il fiatone e le vertigini che ci farebbero barcollare o peggio cadere, una volta arrivati sulla cima potremmo godere di una vista che ci ricompenserebbe dello sforzo intrapreso. Questo racconto, come una piramide a gradoni può sembrare, a prima vista un ostacolo insuperabile, vista la lentezza della narrazione, la presenza di tradizioni culturali per noi estranee, la tendenza della storia a dipanarsi pian piano, scalino dopo scalino. Ma una volta conquistata la vetta ci troveremmo davanti al "pensiero naturale" dell'autore il quale, nell'atto di rappresentare un popolo estinto e le sue abitudini, ci descrive, in realtà, il più totalizzante degli amori e le conseguenze di esso. E lo fa tramite una precisa idea di cinema che si cristallizza nelle lunghe sequenze a camera fissa, nel montaggio minimalista di Sergey Ivanonov, che funge quasi esclusivamente da raccordo tra una scena e l'altra, ed, infine, nelle dolci note di Andrey Karasyov che, sovente, sostituiscono il linguaggio parlato. Allo spettatore resta il compito di accettare o meno la forma e quindi partecipare a questo viaggio in punta di piedi, con pudore, con pazienza, ponendosi all'altezza della mdp, osservando da dietro ciò che succede e ciò che è stato come nelle delicate sequenze della ricomposizione della salma, del bagno di Tanya nella vodka, del rapporto appena accennato con le due ragazze fornite dal fato.
L'amore è il credo di Fedorchenko e del popolo merja e la natura lo trasporta, nello spazio e nel tempo, attraverso le placide sembianze di un fiume che ricongiunge gli amanti defunti, attraverso il fuoco che nel consumare le carni avvicina l'umano al divino, attraverso un nastrino appeso ad un ramoscello che si muove nella brezza. La natura accoglie la preghiera che sgorga silente dalle anime sole dei due amati che non hanno coraggio di chiedere ciò che vorrebbero, ma che un battito di ali benevolo dà loro comunque: l'acqua, il fiume, l'amore.
RaiPlay
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