Regia di Aleksei Fedorchenko vedi scheda film
Si può essere ebbri di morte. Si può venerare una sensualità che ha il colore dell’acqua e il sentore pungente dell’alcol che brucia. Si può coltivare il silenzio ed assecondare il grigiore, eppure portare orgogliosi, nel cuore, il grido primordiale di un’anima pagana. I Finnici del Volga sono una minoranza etnica, abitante in territorio russo, che ha perso la memoria delle proprie tradizioni, delle quali sopravvivono solo segni flebili e passeggeri: i fili colorati che ornano il corpo delle spose, il fiume visto come un immenso ventre materno. Sarà forse il vago retaggio di una gloria trapassata, ormai avvolta nella foschia dell’autunno, a confondere l’immortalità con il dissolvimento, con la sparizione della carne, con la riconsegna ad un’eternità invisibile e impalpabile come un liquido che scorre tra le dita. Aist e Miron sono discendenti dei Merya, un popolo antico le cui radici si perdono nella notte dei tempi. Eppure il peso di una misteriosa e primitiva magia continua a gravare sulle loro menti, indirizzando i loro pensieri verso un’indefinibile fuga dalla realtà: un salto verso il cielo, o un tuffo nel profondo, dove i rumori sono messi a tacere, e tutto ritorna ad essere unito, armonioso e perfetto. Un desiderio inconfessabile risucchia le esistenze fuori dalla plumbea tristezza del mondo, verso una fine che è sempre preannunciata dalla levità della follia e dalla solennità di un gesto sacrificale: la poesia ingenua e sconnessa del padre di Aist, che getterà la sua macchina da scrivere in un lago ghiacciato, oppure i cosiddetti discordi di fumo, che mettono impudicamente a nudo la vita di un defunto, prima che il suo corpo venga cremato e disperso. A precedere l’estremo passaggio è un momento leggero e straordinario come il volo di uno zigolo, un piccolo uccello raro e dal nome singolare, che sembra l’incarnazione della fantasia letteraria. Aist ne acquista due al mercato, all’inizio del film, e li sceglie come compagni di viaggio nella sua dolorosa missione: aiutare un amico a celebrare – con un rito intimo e di carattere ancestrale - le esequie della sua giovane moglie. Quel percorso, fatto di lunghe strade solitarie e di racconti d’amore, è un itinerario attraverso il ricordo, che prosegue con un un’incursione nella trascendenza: una proiezione dell’eterea figura di Tanya nella dimensione ultraterrena, dove il nulla è un paradiso di ineffabile bellezza. In questa immagine, la sua pelle chiara e morbida è la fragilità dell’essere che si trasforma in aria, in profumo, nell’aroma delle spezie e delle erbe officinali, che curano lo spirito con un semplice soffio della loro essenza. Emanazione è tutto ciò che, sollevandosi libero dal suolo, salva l’uomo dal decadimento. È l’alito muto e odoroso che si sostituisce alle parole, e che, in questa vita, è anticipato solo dalle evanescenti allusioni della seduzione. Vapori di incenso ed effluvi di palude si mescolano in una religiosità silvestre, in cui la fisicità è madida di emozioni, ma è anche splendente di spiritualità. Pioggia e fuoco sono gli unici elementi di un universo in cui la terra è sommersa, oppure imprigionata nel ghiaccio, e l’atmosfera è intrisa di nebbia: gelo e calore coprono l’epidermide di goccioline, la sostanza dell’uomo di scioglie e diventa così inafferrabile. Sognare è partecipare consapevolmente a questo inizio di disgregazione, accettando che la gioia degradi nella pace del sonno. Aleksei Fedorchenko fa del suo film non un racconto, ma l’impronta di una storia, vaga e fugace come un segno lasciato su un vetro appannato. E come tono narrativo sceglie l’accento dell’inconsistenza, che fa da uniforme contrappunto all’inespressivo refrain del ciclo vitale: la natura è quella che, da sempre, decide il ritmo del canto, ma gli uomini, esuli di una remota età dell’oro, hanno dimenticato per sempre le sue note.
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