Regia di Daniele Gaglianone vedi scheda film
Pietro (Pietro Cesella) vive insieme al fratello Francesco (Francesco Lattarulo) in una piccola casa fatiscente lasciatagli dai genitori defunti. Distribuisce volantini per la strada, un lavoro che gli consente di guadagnare appena per sopravvivere. Pietro avrebbe bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui, ma è invece lui a dover badare al fratello, un eroinomane perso che gli estorce i pochi soldi che guadagna per comprarsi la droga. Francesco ha come amico fidato un certo Nikiniki (Francesco Nicastro), uno spacciatore prepotente che vive di espedienti illeciti. Pietro è molto bravo a fare versi molto buffi con la faccia, cosa che piace molto al fratello che lo costringe a farne sempre di nuove per divertire gli abituali avventori di un bar che è solito frequentare. Pietro conosce una ragazza (Carlotta Saletti) sul luogo di lavoro, sfruttata e malpagata anche lei dal laido proprietario dell’azienda (Giuseppe mattia). Questa ragazza è l’unica ad accettarlo per quello che è, ad intenerirsi per la sua sofferta ingenuità.
“Pietro” di Daniele Gaglianone è un film che riflette su quella violenza latente che percorre per intero il tessuto sociale del paese. Un pugno nello stomaco inferto con delicata fermezza, con una regia lucida e “impura“ che sa cosa vuole ottenere e che usa le immagini e le parole adeguate per giungere allo scopo. Gaglianone divide il film in piccoli capitoli contrassegnati ognuno da semplici frasi che ne sanciscono idealmente l’inizio. Espediente che serve a contrassegnare un percorso che e come se si sviluppasse per tappe successive, a conferire un rigore filologico all’evoluzione caratteriale di un puro di spirito. Per un calvario tutto laico che assume una forza iconica dirompente in relazione ad una società sorda ai richiami dei più deboli. Pietro asseconda rassegnato il suo particolare calvario, le sue parole suonano mute, il suo corpo suscita attenzione solo quando viene stimolato a comando, i suoi occhi esprimono l’urgenza di ricevere una protezione rassicurante. Pietro vive solo col disagio di essere percepito come un diverso, buono solo per diventare l’oggetto del pubblico dileggio. Non può sfuggire a questo stato di cose, sia perché glielo impedisce la natura del suo carattere mite e remissivo, sia perché, quel divertimento derisorio che suscitano le sue smorfie, è l’unico modo che conosce per sentirsi in comunione d’intenti con le persone che lo circondano. Petro sembra muoversi come un automa in mezzo alla gente, come sospinto dal terrore panico che possa sempre succedergli qualcosa di spiacevole. Intento a registrare ogni cosa e a farsi le domande più semplici sull’universo umano che gli ruota quotidianamente intorno. Perché per piacere agli altri deve sottomettersi al loro desiderio di divertirsi ? Perché deve essere scambiato per un ladro quando vuole depositare dei semplici volantini nelle cassette postali ? Perché il lavoro che fa deve essere sottopagato e fatto passare come un elemosina perché “c’è una fila enorme che lo vorrebbe fare” ? Perché il fratello non riesce a smetterla di drogarsi ed è così succube di una persona arrogante come Nikiniki ? E soprattutto, perché la violenza verbale delle cosiddette persone per bene somiglia molto da vicino a quella praticata dai delinquenti incalliti ? Quanta differenza effettivamente esiste tra la cinica indifferenza esercitata dai primi e le azioni illecite praticate dai secondi ? Forse Pietro conosce anche le risposte, ed è il loro peso insopportabile ad imprigionarlo in una esistenza tinta di grigio, risposte che gli diventano totalmente intollerabili quando escono dal recinto del suo piccolo mondo per investire prepotentemente l’unica persona che gli si è mostrata veramente vicina. Una sensazione questa che si ricava dal modo in cui la macchina da presa si attacca al corpo di Pietro, che Gaglianone pone quasi sempre al centro dell’inquadratura come a volerlo rendere il destinatario ultimo di ogni impurità sociale. Spesso ci viene mostrato mentre è l’osservatore silente delle difficoltà altrui, con gli occhi che non hanno il coraggio di guardare ma che sembrano voler esprimere la vicinanza emotiva con chi si trova, anche solo per pochi minuti, ad essere sottomesso all’autorità dei più forti. In quei momenti, si genera un’unità spazio-tempo che finisce per allineare i disagi esistenziali di Pietro con quelli prodotti in serie da queste nostre “città pulite e violente” (parafrasando De Gregori), jungle urbane dove a farla da padroni sono quelli che sanno vestirsi da leone e fare la voce grossa con il più debole di turno. La macchina da presa, quando non è attaccata al corpo di Pietro, se ne distanzia di pochi metri, catturando solo porzioni limitate di spazio, in una maniera che quegli spazi non sono riconducibili a nessun luogo particolare, che possono rappresentare ogni spazio possibile di una qualsiasi città italiana (non solo la Torino dove effettivamente ci troviamo). Un non luogo che diventa la patria deputata della vile arroganza.
Quella che adotta Daniele Gaglianone non è una soggettiva, ma è come se lo fosse dato il modo in cui la regia aderisce alla figura di Pietro facendone emergere ogni slancio emotivo. Si prendano i momenti in cui lo schermo diventa nero come se fosse stato interrotto da un battito di ciglia, o quelli dove le immagini appaiono sfocate, come proiettate da un occhio sbilenco che ne deforma volutamente le sembianze, immagini che si contrappongono specularmente a quelle, invece, dove la profondità di campo ci viene restituita in maniera nitida mantenendo Pietro sempre in primo piano. Artifici stilistici che sono (evidentemente) serviti a mettere in relazione la condizione emotiva del ragazzo con l’ambiente cittadino che lo circonda, la necessita di doverlo subire con il desiderio di volerne sfuggire. In definitiva, “Pietro” è un film dominato da una regia consapevolmente temeraria, che con la complicità di una fotografia bella ed essenziale (di Gherardo Gossi9, usa il corpo malleabile di Pietro Casella per tratteggiare uno spaccato di società italica di dolente modernità. Convincenti le prove dei tre attori protagonisti (noti agli appassionati di “Zelig” come il gruppo cabarettista dei “Senso d’oppio”), soprattutto di Pietro Casella, icona credibile di emarginato sociale. Film “miracolosamente” bello.
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