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La mia pistola per Billy

Regia di Ted Kotcheff vedi scheda film

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La recensione su La mia pistola per Billy

di scapigliato
8 stelle

Prima ancora del capitolo seminale di Rambo, “First Blood”, e prima di “Fratelli nella Notte” con Gene Hackman disilluso in Vietnam, Ted Kotcheff girò questo “La Mia Pistolla per Billy”, uno dei western migliori di quel decennio smitizzante, se non addirittura uno dei più bei western della storia. Dimenticatevi la fondazione di una nazione. Dimenticatevi l’integrità del buon cowboy di propaganda americana anni ’50. Dimenticatevi l’accomodata visitazione dei luoghi e degli schemi del western. Piuttosto pensate ai silenzi di Leone, all’alterità di Peckinpah e alla sua secca rappresentazione di ambienti e personaggi. Il film tra l’altro è sceneggiato da un nome come quello di Alan Sharp che scrisse, in ordine, “Il Ritorno di Harry Collings” di e con Peter Fonda, “Nessuna Pietà per Ulzana” di Aldrich con Lancaster, questo “La Mia Pistola per Billy”, “Bersaglio di Notte” uno dei capolavori di Arthur Penn con Gene Hackman, “The Osterman Weekend” l’ultimo vero film del grandissimo Sam Peckinpah, e il recente “Rob Roy” di Michael Caton-Jones con Liam Neeson e Tim Roth. A questo solido biglietto da visita di regista e sceneggiatore vanno aggiunti gli attori, da Gregory Peck a Jack Warden, compreso il Desi Arnaz Jr. che è il Billy del titolo (celebre in seguito per essere il Walter della serie tv “Automan”).
Basterebbe questo per parlare seriamente di un western atipico e bellissimo da ammirare. Però vanno dette un sacco di altre cose. Innanzitutto l’ambientazione. Nel film si parla spesso di confine messicano, ma la terra delle locations è addirittura Israele. L’impatto visivo è infatti l’aspetto principale che colpisce lo spettatore proprio al cuore. Una terra arida, avida di forme umane e vegetali, che si ripercuote su chi l’attraversa come un flagello biblico. Tant’è che la Bibbia è citata esplicitamente due volte nel film. Il passaggio più importante è quello in cui Gregory Peck, stupendo “anziano” sul viale del tramonto, parafrasa il libro dell’Ecclesiaste con queste precise parole: “Due valgono più di uno solo, perchè ricavano un buon compenso dalla loro fatica; giacchè, se cadono, uno rialza l’altro, mentre, guai a chi è solo e quando cade non c’è un altro che lo possa rialzare”. É il momento clou della narrazione, la scena in cui si svela il principio di moto dell’intera pellicola, ovvero l’incondizionato affetto reciproco del vecchio Peck con il giovane Billy Due Gilet (in originale, “Two Hats”, due cappelli). Un affetto che non importa se sia pura amicizia virile, tensione padre-figlio, oppure relazione omosessuale, perchè la storia esemplare di un affetto “a due” è quella che la citazione biblica riporta. É quindi una relazione benetta da Dio, qualunque essa sia. E il tutto, gettato in ambiente straniante, che solo in apparenza sembra alienare, ma che in realtà esalta l’essenziale. Come un teatro spoglio, il deserto permette l’evidenziarsi dei personaggi, dei loro caratteri, del loro essere segno di un racconto mitico che forma l’essere di chi lo assiste e rimanda ai luoghi dell’anima più difficilmente raggiungibili. La potenza del western è proprio questa, divenire teatro crudele e senza appelli della vita umana. In cui a risaltare è l’uomo, nella sua centralità umanistica, in contrasto con un ambiente desolato, desertico, ma altrettanto spirituale in cui si rispecchia il vero personaggio western, cowboy, sceriffo, bandito o pistolero che sia: un personaggio inquieto, errante, distaccato, ma dalla profonda spiritualità. Inquieto perchè altrimenti avrebbe una casa fissa, dove mettere radici, con una famiglia a cui tornare. Ma questo non è il West, e ce lo ricorda sia questo film di Kotcheff che un altro spettacolare western sempre sceneggiato da Alan Sharp, ovvero il cgià citato “Il Ritorno di Harry Collings”. Il richiamo per il vagabondare in terre solitarie non è il prezzo di un peccato originale difficile da cancellare perchè impresso nell’animo del personaggio, bensì un dono. Un personaggio errante, nelle due accezioni di chi “sbaglia” e di chi “vaga”, e distaccato perchè nella sua isolazione è eremita, è pellegrino del e nel suo stesso animo. Da qui, il passo verso la sua profonda spiritualità, è breve. L’anelito spirituale, quasi divino, a cui ogni vagabondo di frontiera è predisposto, è palpabile, vivo, e rintracciabile sia nelle forme della narrazione come in quelle estetiche come in quelle grammatiche del film. Le prime sottolineando regolarmente il ruolo dei due protagonisti all’interno del mondo diegetico che il regista ci propone; le seconde dando largo spazio agli ambienti solari, desertici, essenziali, quasi sacrificali che ricordano i quaranta giorni nel deserto di Gesù Cristo; e le terze preferendo una macchina da presa distaccata, neutra, con assenza di commenti musicali invasivi, piuttosto che un linguaggio cinematografico votato alla chiara visibilità della narrazione a scapito delle componenti emotiva e visiva.
In conclusione, l’uomo immobile (Gregory Peck, dopo la ferita alla gamba) e l’uomo mobile (Billy Two Hats), sono le due anime di uno stesso spirito. Secondo la formula baziniana per cui se il Western è movimento e il Cinema è movimento, allora il Western è il Cinema, ci sta dentro che il personaggio di Gregory Peck è l’anti-pistolero, mentre Billy il Meticcio è la vera anima del racconto cinematografico western. Un’anima appunto meticcia, mista, multiforme che non ha nulla da spartire con le classificazioni, i registri manichei e le segregazioni di molte società così dette civili in cui a vigere è invece un conservatorismo fascista. Il film di Kotcheff, forse il suo film più bello, ha così l’ambizione di raccontare una vicenda esemplare ripulendola dalla retorica e dalla pedanteria tipica delle storie esemplari. Il risultato è un racconto mitico, e non epico. Un racconto archetipico e non di rilettura.
“La Mia Pistola per Billy”, dalle forti connotazioni omoerotiche, e non omosessuali, arriva così ad essere uno dei film western più importanti realizzati nella storia del cinema, sia per la sua dimensione narrativa sia per quella visiva, dove un’estetica votata all’essenziale e all’esaltazione dell’inquadratura suggestiva ed emotiva, ha il peso maggiore in termini di cifra stilistica finale. Un grande Gregory Peck, è vero. Un buon meticcio che sa ispirare non pochi sussulti anche nello spettatore maschile. Ma soprattutto c’è un immenso Jack Warden, forse nel suo ruolo più bello e meglio riuscitogli. Uno sceriffo che non è un cattivo stereotipato, ma un uomo impoverito dall’ambiente, che non crede nell’amicizia leale tra un bianco e uno sporco indiano, e per questo li perseguita entrambi per ucciderli, per ripulire il mondo dall’insana aggregazione di più razze. Un Jack Warden incisivo che ruba la scena addirittura al grande Peck, ma non poteva essere diversamente, visto che quest’ultimo è l’uomo immobile, l’anti-pistolero, l’opposizione in negativo, l’immagine in controluce dell’animo errante del vero pistolero. Infatti muore, per una giusta causa, dopo aver salvato a suo modo il suo amico Billy, mentre questi, il meticcio, vivrà e si sposerà con la ragazza incontrata nel loro peregrinare. Ma non ci è dato sapere come. Questo è l’ultimo segno di una sceneggiatura poco compiacente verso le regole, ma molto vicina alla sensbilità dell’essere umano.

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