Regia di Monte Hellman vedi scheda film
Un terzo "Effetto Notte", un terzo "Sotto gli ulivi", un terzo INLAND EMPIRE: shakerate in modo da mescolare per bene i tre ingredienti ed ecco pronto il cocktail meta-filmico di Monte Hellman. Il grande innovatore/negatore del cinema USA, prima sul fronte western ("Le colline blu" e il meno riuscito, un po' sopravvalutato "La sparatoria"), poi soprattutto su quello on-the.road (l'imprescindibile "Strada A Doppia Corsia"), arriva alle soglie degli anni 10, nell'era del post-moderno avanzato e, forse, del post-cinema, ad aggiungere un nuovo tassello, forse definitivo, a due percorsi: il suo personale, quello di svuotatore di generi, codici, grammatiche e sensi del cinema statunitense (e non sorprende infatti il suo approdo al meta-cinema, non-genere "svuotato" per eccellenza, terreno arato per la speculazione critica sull'immagine finzionale); e quello che costituisce l'evoluzione del cosiddetto "cinema nel cinema", quella branca auto-riflessiva e auto-interrogativa della Settima Musa che ha i suoi nonni nelle sperimentazioni mute di Keaton e Vertov, i suoi padri in Resnais ed altri autori delle "nuove onde", un brillante fratello maggiore nell'Allen della Rosa Purpurea, fino ai più recenti sviluppi. I tre "ingredienti" citati in apertura paiono i più calzanti: dal capolavoro di Truffaut, "Road to nowhere" riprende l'insistenza sui dettagli procedurali e tecnici delle professioni legate alla produzione cinematografica; da quello di Kiarostami, la sottile confusione fra i piani della realtà/finzione, che paiono intrecciarsi inesorabilmente, sprigionando l'intensa affettività dei personaggi; da quello di Lynch, invece, la fascinazione un po' perversa per l'immaginario hollywoodiano. C'è anche un tocco di Powell nella presenza finale di una cinepresa identificata come un'arma ("l'occhio che uccide") dalla polizia. E' un film dove la convergenza e l'intarsio fra livelli narrativi e psicologici si verifica sin dalle prime serrate sequenze, dove si stabilisce subito l'aspetto multimediale (quasi un Greenaway semplificato) della rappresentazione, con l'incipit in cui la mdp zooma su un laptop che proietta il film del personaggio-regista e i titoli di testa portano i credits del film-nel-film! Inoltre la realtà televisiva e soprattutto di internet entra prepotentemente a scombinare la già fragile consistenza dell'immagine filmica: televisione, blog, filmati web contaminano la visione, creando una irrealtà affine a quella del fondamentale "Diary of the dead" romeriano. Soluzioni radicali, come gli enigmatici ralenti che chiudevano la Sparatoria o la pellicola bruciata sulla Strada a doppia corsia. Il problema è che il film finisce per restare intrappolato in questo garbuglio di false piste, senza il rigore e la potenza visiva di Lynch, nè la sublime grazie di Kiarostami, nè l'empatia torrenziale di Truffaut. Resta una dichiarazione di intenti, fredda e programmatica, che si salva per l'impeccabile controllo del tono registico, la dolcezza dei momenti di abbandono romantico (la seduzione a Roma, gli amanti che si abbracciano vedendo vecchi film), l'apprezzabile svolta melò dell'ultima parte, il finale beffardo e, ancora una volta, multimediale.
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