Regia di Monte Hellman vedi scheda film
La strada verso il nulla. Ovvero: i cortocircuiti del cinema, che pretende di guardarsi dentro, mentre guarda fuori, alla realtà, e finisce vittima delle proprie contorsioni narrative. Veri non sono gli eventi a cui il film si ispira, né quelli inventati, scritti nel copione e poi portati in scena dagli attori, ripresi dal regista. Veri sono soltanto i moti interiori degli individui che creano la storia, le inquadrature, la pellicola. Sono questi, infine, a determinare l’esito complessivo dell’impresa: se l’opera giungerà mai a termine, verrà proiettata, avrà successo. Oppure se tutto naufragherà nel caos delle mediocri ed imperscrutabili debolezze umane. Il cineasta Mitch Haven è eccessivamente preso dal suo film, osserva uno dei suoi collaboratori. Ed è anche troppo coinvolto emotivamente con Laurel Graham, la protagonista femminile. Mitch non vede altro che quella donna, ed il resto del mondo gli sfugge. Monte Hellman ci presenta questa visione bioculare in cui la prospettiva è, contemporaneamente, rivolta verso il cuore di una creazione artistica che è intrisa di cieca passione, e verso il confuso, ma cinico agire che le fa da contorno. I due livelli si intrecciano, si sovrappongono, si scindono, le stesse persone compaiono nel ruolo di interpreti e in quello di personaggi reali, perché tutto, ciò che accade davvero e ciò che è solo una finzione, fa parte del convulso ménage che si svolge intorno ad un set. Il punto di vista di Mitch ne percepisce solo la prima metà, e questo gli risulterà fatale. A causa sua, il progetto non andrà a buon fine, soffocato dall’invadenza di ciò che egli pretendeva di poter ignorare. Il cinema e la vita si specchiano l’uno nell’altra, ma, a dirigere questo gioco di riflessi ci deve essere qualcuno, che stia nel mezzo e non perda mai il controllo della situazione. Essere innamorati di un’idea può essere pericoloso, se non si tiene conto di ciò da cui questa ha tratto origine e dei trascorsi di coloro che sono chiamati a realizzarla. Laurel Graham, agli occhi di Mitch, è un autentico incanto, quando l’obiettivo la inquadra, indipendentemente dalle sue effettive qualità recitative. Secondo lui, è perfetta per la parte di Velma Duran, ma forse soltanto perché crede di aver trovato in lei la donna dei suoi sogni. La filma, la ama, e niente altro, per lui ha importanza. La ammira con la stessa devozione che dedica a quelli che considera i capolavori della settima arte, insieme a lei, riguarda, nell’intimità: Lady Eva (1941) di Preston Sturges, Lo spirito dell’alveare (1973) di Victor Erice, Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman. Non ammette che nulla uccida quell’illusione, a cominciare da quel Bruno Brotherton, un tecnico addetto alla scenografia, che, in realtà, è l’investigatore incaricato da una compagnia di assicurazioni, intenzionata a vederci chiaro in una probabile truffa: quella relativa allo strano incidente aereo che sta al centro della vicenda da cui il film è tratto. Mitch si nutre di letteratura, della trasfigurazione lirica di ciò che lo circonda, e dalla quale esclude gli aspetti più prosaici: i finanziamenti, i contratti, le questioni legali. È un giovane eroe romantico, ed usa la cinepresa come un prolungamento dei suoi sensi: uno strumento che, tra le sue mani, diventa parte di lui stesso, e comunica direttamente col cuore. Questo uomo, fuori dal tempo, vive nella penombra della poesia e rimane schiacciato dalla concretezza. Seguire la sua vicenda, per chi vi assiste dall’esterno, significa dover mettere insieme pezzi disordinati di visione e di memoria, quei frammenti che, uscendo dall’animo di Mitch, riescono a rendersi visibili, e quelli che, viceversa, riescono fortuitamente a farsi strada nel suo ristretto angolo visivo. L’insieme è incompleto e incoerente, e lascia complessivamente in bocca un gusto tiepido. La stessa tragedia assume un tono freddo, che, però, è quello dello sbigottimento, della disperazione incolore di chi, semplicemente, non capisce. Road to Nowhere è un making of realisticamente inconcludente: con la sua nuda incoerenza, si oppone ai meccanismi celebrativi dello star system, che propone i suoi dietro le quinte come aneddotiche esperienza di squadra. Fare film può essere un viaggio solitario, magari esaltante, per il singolo, però stupidamente votato al fallimento, come lo sono gli errori di gioventù: quelli nostalgicamente rievocati in questa splendida poesia dello scrittore ispano-americano George Santayana (1863-1952):
As in the midst of battle there is room
For thoughts of love, and in foul sin for mirth;
As gossips whisper of a trinket’s worth
Spied by the death-bed’s flickering candle-gloom;
As in the crevices of Caesar’s tomb
The sweet herbs flourish on a little earth:
So in this great disaster of our birth
We can be happy, and forget our doom.
For morning, with a ray of tenderest joy
Gilding the iron heaven, hides the truth,
And evening gently woos us to employ
Our grief in idle catches. Such is youth;
Till from that summer’s trance we wake, to find
Despair before us, vanity behind.
(Sonnet XXV)
Nel film, Mitch la recita a Laurel. Tradurla è impossibile.
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