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La donna che canta

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su La donna che canta

di Peppe Comune
8 stelle

Due gemelli, Jeanne Marwan (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon Marwan (Maxim Gaudette), vengono convocati nello studio del notaio Jean Lebel (Rémy Girard) per apprendere le disposizioni testamentarie della defunta madre Nawal Marwan, una donna di origini libanesi e di religione cristiana che proprio nello studio notarile aveva lavorato come segretaria per diciotto anni circa. "Al notaio Jean Lebel: seppellitemi senza bara, nuda e senza preghiere, con il viso rivolto al suolo, spalle al mondo. Lapide ed epitaffio: sulla mia tomba non ci saranno lapidi e il mio nome non sarà inciso da nessuna parte. Nessun epitaffio per chi non mantiene le promesse. A Jeanne e Simon: l'infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via facilmente. Jeanne, il notaio Lebel ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro padre. Ritrovalo e consegnagli la busta. Simon, il notaio ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro fratello. Ritrovalo e consegnagli la busta. Quando le buste saranno state consegnate ai loro destinatari, vi sarà data una lettera: il silenzio verrà rotto, una promessa mantenuta e sulla mia tomba potrà posarsi una lapide e su di essa il mio nome, alla luce del sole". Jeanne e Simon rimangono letteralmente sconvolti, non sapevano di avere un fratello, hanno sempre creduto che il padre fosse morto in guerra e ora ricevono anche la netta impressione che la vita della madre ha un sottofondo di mistero tutto da scoprire. Jeanne, in linea con con lo "spirito" matematico impressagli dalla sua formazione culturale (è assistente universitaria al corso di matematica pura), accetta subito di partire per i luoghi d’origine della madre, vogliosa di scoprire la verità e di dare un senso alle sue stesse origini. Simon è più diffidente e non vuole saperne di gettarsi in una storia che potrebbe riservargli spiacevoli sorprese. E’ soprattutto da lui che ricaviamo la netta impressione che tra i gemelli e la madre i rapporti non sono stati proprio idilliaci.

 

 

“Incendias” (dall’omonima opera teatrale del drammaturgo canadese di origini Libanesi Wadji Mouawad) dell’autore canadese Denis Villeneuve è un film costruito come se si trattasse di un teorema la cui dimostrabilità passa attraverso la certa constatazione che il sangue alimenta sempre e solo altro sangue. Per approdare poi alla speranza che la vita nutrita dall’amore può servire a riconoscere e a disinnescare i germi dell’odio che l’hanno prodotta. Nel ventre molle dell’endemica questione mediorientale, l’amore e l’odio, i richiami del sangue e le mire oscurantiste della religione, i drammi che si consumano davanti ad occhi sgomenti e la voce ammaliante della storia, la chiarezza di un male che sembra non trovare soluzioni e il sapore acre di un mistero da rivelare, si ritrovano riuniti come un unico insieme in un quadro di straziante dolore esistenziale che assomma, alla linearità geometrica di una trama che si svela poco per volta, il carattere tipicamente emblematico di una tragedia greca. Il film segue uno schema binario, come due cose che si riconoscono guardandosi nello stesso specchio, speculari l'un l'altra, come la vita e la morte, l'amore e l'odio, l'oriente e l'occidente. Da un lato, abbiamo i fatti tragici della vita di Nawal, dall’amore col musulmano Wahab (Hamed Najem), osteggiato dai familiari e dall'intera comunità, fino ai quindici anni trascorsi nella prigione di Kfar Ryat, dove tutti la conosceranno come “la signora che canta numero 72” e dove conobbe l’onta della tortura e della violenza carnale ad opera di Abou Tarek (Abdelghafour Elaaziz). Passando per la ricerca disperata del figlio nato dall’amore per Wahab, segnalato l’ultima volta nell’orfanotrofio di Deressa, la militanza pacifista durante il periodo universitario, l’adesione alla causa palestinese, fino all’azionismo militante contro i simboli reazionari dell’estrema destra cristiana. Dall’altro lato, troviamo invece l’ostinato peregrinare di Jeanne per ricostruire, insieme all’esatta identità della madre, i passaggi esistenziali del padre e del fratello. Fino al ricongiungimento con Simon e la forza di continuare insieme la strada già tracciata verso l’inevitabile scoperta delle loro radici profonde. Camminano insieme queste due strade, l’una accompagnandosi agli eventi tragici delle guerre di religione attraverso il percorso esistenziale di chi ne ha subito tutti gli effetti devastanti, l’altra seguendo lungo la stessa rotta la calma apparente di fuochi mai disinnescati. Si guardano e si sfiorano, scambiandosi indizi e offerte di comprensione, fino giungere alla conclusione che, se è vero che la concatenazione di eventi che si susseguono secondo il più naturale rapporto di causa effetto tanto somiglia ad un addizione con risultato determinabile, è altrettanto vero che nel focolaio mediorientale, nella regione del mondo dove più è possibile che una vittima degli eventi tragici di ieri possa riscoprirsi come il carnefice che alimenta quelli di domani, la risultante di un’ equazione può derivare dalla natura prevedibile delle sue incognite. La storia lascia sempre delle tracce dietro di se, basta seguirne la scia e sapere che i comportamenti umani non seguono regole codificate una volta e per sempre e certamente si arriverà all’esito desiderato. In questo campo dell’agire umano, uno più uno può anche non fare due, mentre due strade parallele che si guardano l’un l’altra a distanza di qualche decennio possono entrambe concludersi come una voluta e ricercata chiusura del cerchio, un cerchio che inizia con la rabbia coltivata nel cuore per un amore universale sistematicamente calpestato dagli odi fondamentalisti, e si conclude con il risultato di una ricognizione esistenziale che conserva nella drammatica eccezionalità degli intrecci che si susseguono tutta il valore simbolico che ne sorregge la trama. “Niente è più bello dell’essere insieme” scrive Nawal nella lettera preparata per i figli, una lettera che potranno leggere solo dopo aver adempiuto alle disposizioni testamentarie, perché solo dopo essere penetrati nella via crucis di una donna negata alla vita e averne percorso la strada che conduce fino alle loro stesse esistenze, possono predisporsi alla comprensione che dall’amore può nascere l’odio e dall’odio può germogliare di nuovo la voglia di preferire l’amore. Niente è più bello della scoperta di poter racchiudere in un'unica entità fisica tutto l’amore e tutto l’odio che si è capaci di possedere e consegnarsi al futuro con la “promessa mantenuta” di una catena dell’odio finalmente spezzata. “La donna che canta” è un ottimo film, girato con pregevole compostezza narrativa e autentico trasporto emotivo, lontano anni luce dal gratuito sensazionalismo di maniera e dai ricatti faciloni della retorica del dolore. Un esito felice dalla parte della vita.

 

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