Regia di Antonio Capuano vedi scheda film
Un film dalle buone potenzialità, fortemente debilitato dalla scellerata decisione di non inserire i sottotitoli: difficile per uno spettatore lombardo comprendere metà dei dialoghi (in dialetto napoletano stretto). A metà strada fra “Gomorra” e “Cesare deve morire”, la vicenda di Ciro, adolescente di famiglia proletaria finito in carcere per un caso di violenza carnale, si alterna a quella della sua vittima, la diciottenne problematica Irene, la cui famiglia borghese indirizza verso terapie anche sperimentali per superare le proprie turbe psicologiche. Il confronto fra le classi rimane poco approfondito; più attenzione viene data alle simmetrie fra queste due vite destinate ad incrociarsi solo nell’intenso gioco di sguardi del finale.
Ci sono tante idee nel copione, forse troppe, alcuni solo abbozzate, altre sviscerate con eccessivo puntiglio. Il tema della prigione (reale e metaforica), l’arte, la poesia e la musica come mezzi di riscatto sociale (proprio come nel suddetto “Cesare” dei Taviani), la distanza fisica che non impedisce una inconsapevole vicinanza emotiva, il rimando romantico ad una idea “vintage” dell’amore (le lettere scritte a mano, quasi una metafora dell’esilio sociale di Ciro, oltre che risposta “slow” e squisitamente antiquata all’isteria dell’incipit: un bombardamento di cromatismi irreali alla Garrone e fermo-immagine che evocano il tipico immaginario espressivo della (in)cultura 2.0, tutta scatti fugaci al videofonino e altre porcate). C’è squilibrio fra le componenti, oltre che qualche omissione di troppo sul piano narrativo. Si fatica a trovare una precisa chiave morale o estetica per “entrare nel film”, se non quella (scontata) dell’empatia verso i personaggi: il senso di colpa, il desiderio di purificazione, la pulsione sessuale, l'incomprensibilità del reale e altro ancora, restano tutti percorsi indicati ma mai affrontati con forza e spessore.
Eppure Capuano ha tocco, stile, idee. Sminuzza e dilata i tempi del racconto, con un montaggio ostile ai tempi filmici tradizionali, lambendo talvolta la poesia delle migliori “nuove onde” degli anni 60 e 70: la passeggiata di Irene nei vicoli più suggestivi di Napoli, sotto un impietoso acquazzone, è una delle pagine più riuscite dell’opera. Oltre a questo, il regista partenopeo compone piani di grande grazia e bilanciamento figurativo, concede tutto il tempo necessario a sguardi e silenzi, irrompe con inusitati inserti lynch-iani nelle rare sequenze erotiche e delizia con immagini filtrate e distorte da vetri (la stravaganza visiva è una caratteristica di tutta la scuola napoletana, da Martone a Corsicato). Nel complesso, il film non è originalissimo: anche nel modo di trattare l’adolescenza (femminile e maschile) riprende alcune tendenze del cinema italiano contemporaneo. Ma lo fa con personalità e carattere. Ciò che penalizza (e molto) il film è semmai, come detto, una sceneggiatura disorganica e ridondante, oltre alla già citata difficoltà di comprendere i dialoghi. Incerto anche il giudizio sull’interpretazione: il bicchiere mezzo pieno è quello di Irene De Angelis, sguardo magnetico come pochi altri, mentre Gabriele Agrio non convince alla stessa maniera.
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