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Et in terra pax

Regia di Matteo Botrugno, Daniele Coluccini vedi scheda film

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La recensione su Et in terra pax

di MarioC
7 stelle

Dismessi i panni di quella architettura dell’anima voluta da Nanni Moretti, il Corviale torna a essere quello che purtroppo è: un brutto quartiere di Roma, un alveare brulicante di giorni e figure senza gioia, un vaso di Pandora di asperità, omertà, violenze. Et in terra pax mescola, con buona intuizione, Vivaldi, Pasolini e De Cataldo: il primo nella musica che squarcia il velo della pusillanimità, l’ultimo nella rappresentazione ben calibrata di una criminalità che è stigma inesorabile, il secondo nella descrizione accorata di un certo tipo di sottobosco proletario senza speranze e senza passaporto. La mutazione antropologica che Pasolini preconizzava si è anzi perfettamente compiuta: i sottoproletari si affannano senza tregua alla ricerca di quei modelli della borghesia che un tempo parevano irraggiungibili; rubare un telefonino, vagare alla ricerca ed all’accattonaggio di un po’ di fica (con le tragiche conseguenze che l’impossibilità di incanalare un tale istinto primordiale arrecherà) sono le azioni reiterate che dipingono il quadro di una perdita di identità forse ancora più grave della rabbia e della meccanicità di una vita segnata da un’acqua battesimale inesorabilmente sporca. Il riverbero pasoliniano ritorna, nella sua originaria purezza, soltanto nella scena dell’inseguimento al quartiere Prati, quando sembra scorgersi, nel viso e nella espressione del ragazzo nero di borgata, un reale stupore, una candida volontà di scoperta di quelle architetture ordinate, di quel lindore accecante, che a lui parevano (anzi erano, e sono, e saranno) alieni.

Senza alcun compiacimento i due registi esordienti disegnano le coordinate e le traiettorie di una ricerca di riscatto bacata dalla impossibilità. Il ragazzo che esce di prigione dopo 5 anni, scaraventato nel ventre materno di un quartiere che è esso stesso città, benchè geograficamente irrilevante, si scontra con il soffocante afrore di giorni che si trascinano come prima, e come sempre. E si lascia vivere, fermo, fisso su una panchina, ad osservare le famiglie povere ed i nuovi volenterosi non ricchi (i romeni che regalano al nulla una indefessa capacità lavorativa), tra uno spaccio e l’altro, tra una visita inaspettata della ragazzina dignitosa e perbene, tra i ricordi di quella palestra che solo in carcere riusciva a ridare ossigeno ad un corpo già marcio. L’esplosione di violenza finale pare rimettere le cose a posto (la pax del titolo), ma è solo il fare terra bruciata della violenza gratuita, soffocandola in altrettanta violenza. Quell’ultimo falò  è il falò della vacuità delle vite. Ed è un messaggio disperante.

Il film è molto bello e compatto, riuscendo a trasmettere uno strano ed ansioso senso di solidarietà verso tutti i personaggi, positivi e negativi. Tutti paiono agiti da un manovratore inconsapevole, che non è certo Dio, e nemmeno lo Stato. A regalare un po’ di speranza è l’ultimo sguardo della ragazza violata, che si spinge fuori, a scoprire i soliti orrendi casermoni, e verso una panchina dove, come sempre, ma ancora per poco, riposa il suo vendicatore. Non sapremo mai se quello sguardo sarà riuscito a diventare adulto; se, soprattutto, ce l’avrà fatta, finalmente, a fuggire.

 

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