Regia di Matteo Botrugno, Daniele Coluccini vedi scheda film
Marco, che è uscito ora dalla prigione e vorrebbe (vanamente) non ricadere negli errori di un tempo. Sonia, che da quegli errori così ricorrenti nell’intorno vorrebbe fuggire, rifugiandosi nel lavoro, confidando nello studio. Faustino, Nigger e Federico, che galleggiano in una quotidianità stantia, dove la cocaina è un’abitudine stanca e irrinunciabile e i valori sono oggetti che, al limite, si possono indossare. Et in terra pax è questo: destini già scritti, speranze stuprate, la deriva verso un abisso che il sistema è già pronto a digerire. Nessuna epica, nessun romanticismo, nessun romanzo criminale. Tre linee narrative che si sviluppano, si intrecciano prevedibilmente, ineluttabilmente, e infine si sciolgono, senza che alcunché si risolva. L’inizio è la fine. Perché a Corviale, Roma, periferia per antonomasia, regna l’immobilità. In questo micromondo abitato da coloro che ipocritamente vengono chiamati marginali l’unica preoccupazione è mantenere lo status quo. Un ordine che vive sulla sospensione della Legge e sopravvive con il sacrificio (privo di costo morale) di ogni ideale. I 30enni Botrugno e Coluccini, esordienti con tre cortometraggi di valore alle spalle, lavorano sull’ambiente, facendone il personaggio principe: i luoghi della borgata, simboli di una stasi sociale e spirituale prossima alla putrefazione, soffocano i protagonisti, li soverchiano, facendone agli occhi dello spettatore semplici e caduchi ingranaggi di un meccanismo disumano, mentre la macchina da presa si premura di cogliere sguardi verso un altrove sistematicamente negato, cancellando l’orizzonte di ogni anima. A restituire il respiro tragico di questi corpi ottusi - carne umana alla Walter Siti -, è l’invadenza della musica che, pasolinianamente, «sfonda le immagini piatte dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita». Faticosamente giunto in sala dopo la presentazione alle Giornate degli Autori di Venezia 2010, Et in terra pax nobilita la nera (iper)realtà messa in scena tramite una cura formale in bilico tra feroce realismo lirico e un compiacimento estetico che agisce in sottrazione (la scena dello stupro), frutto di un cinema comunque ostinato nello sdegnare giudizi e denunce automatiche, lontano dall’adagiarsi in facili spettacolarizzazioni. Qui, dove la pace è un inferno, (Mamma) Roma è prossima a Gomorra.
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