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Et in terra pax

Regia di Matteo Botrugno, Daniele Coluccini vedi scheda film

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La recensione su Et in terra pax

di OGM
8 stelle

La borgata come un modo d’essere. Una libertà triste e sguaiata, che è l’anima di una vita che si odia, però non si combatte. Assecondare lo squallore è un po’ una cinica presa di posizione, un po’ una drammatica necessità, in un ambiente in cui ci si sente dimenticati, e quindi si pretende almeno di essere lasciati in pace. La violenza è una forza endogena, che serve a regolamentare la fisiologia di una comunità ristretta, per la quale il sopruso e la clandestinità costituiscono l’unico modo per rapportarsi col mondo esterno senza venirne schiacciati. Marco è appena uscito dal carcere, e nonostante la sua volontà di ricominciare, viene inesorabilmente risucchiato da questa logica perversa non appena ritorna a casa. Per Massimo, Federico e Faustino le scorribande sono viaggi attraverso una realtà avara di stimoli, di opportunità, di ragioni per guardare al domani, e che quindi può solo essere razziata di quel poco che occasionalmente sembra offrire: un cellulare in mano ad un ragazzino indifeso, un bagno di sole su una scalinata di cemento, una partita di calcetto su un campo sterrato, un tiro di coca preparato su uno specchietto retrovisore strappato a un’auto in sosta. Stare in ozio, oppure andare a rosicchiare in giro come un manipolo di topi di città: questa è la dimensione sporca e asfittica di un’esistenza vagabonda che si avvita su se stessa, incapace di partire davvero, staccandosi dalle proprie venefiche radici. Il casermone di periferia è la sede di un’autarchia criminale, la cui sopravvivenza dipende proprio dall’inviolabilità dei suoi confini. All’interno si può solo stare al gioco, alimentare i mercati illeciti, rispettare la riservatezza, mantenere un basso profilo. Nulla si muove veramente, perché tutto circola all’interno di un circuito ermeticamente chiuso, in cui ognuno svolge un ruolo prestabilito.  Il sistema descritto in questo film è una brutta copia, su scala ridotta, della società metropolitana, con i suoi interessi economici, con il culto dell’immagine, con gli equilibri di potere. La giovane Sonia vorrebbe continuare a viverci nel mezzo, pur preparandosi, con lo studio ed un atteggiamento indipendente,  una  personale via d’uscita. In quel contesto vorrebbe lavorare onestamente, difendere la propria dignità, costruirsi un futuro, amare e sognare. Ma questo atteggiamento, nell’ambiente circostante, è avvertito come una sfida inaccettabile. La pace interna è il supremo principio fondante di quel microcosmo dal quale è bandito ogni intervento esterno: ogni cosa e ogni persona possono essere sacrificate al mantenimento dello status quo. Il mondo gira soltanto per chi sta fuori, per chi si dà veramente da fare, magari facendosi sfruttare da altri  o umiliandosi pubblicamente pur di poter tirare avanti. Il quartiere è la prigione della vita sbagliata, mentre al di là si estende il mondo in cui la miseria è un male da affrontare a viso aperto, mettendosi in gioco in prima persona, sia che si tratti di fare l’operaio “in nero” in un cantiere, sia che si tratti di raccogliere pezzi di rame dai rifiuti. Il regno di Et in terra pax è il centro inerte del ciclone del dolore universale, il punto di eterna quiete attorno a cui il resto dell’umanità si affanna, da millenni, verso la salvezza. Una calma di morte, che vuole proseguire la sua malefica opera nel silenzio generale, distruggendosi da sola, ma senza far rumore. Questo film parla il linguaggio di un tragico messaggio lanciato contro il vuoto, contro un orizzonte che rimane ostinatamente fuori dal campo visivo: l’altro è l’estraneo che si guarda da lontano, con timore, come i delinquenti, o con grande pena, come Marco, che invidia agli zingari e agli immigrati clandestini la loro condizione di padroni della propria vita, per quanto questa sia faticosa e sfortunata. Il suo monologo, pronunciato sulla panchina di un giardinetto incolto, è il cuore pulsante di un film che, anche in mezzo alla desolazione morale, riesce ad articolare il grido in una sensibilissima gradazione di emozioni umane, pur senza eludere la rappresentazione diretta dell’orrore. 

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